sabato 23 settembre 2017

Per una Sinistra di Nuovo Grande

di William Mitchell e Thomas Fazi (da American Affairs)
traduzione di Domenico D'Amico



Attualmente l'Occidente si trova nel bel mezzo di una ribellione contro l'establishment, una ribellione di proporzioni storiche. Il voto sulla Brexit nel Regno Unito, l'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il rifiuto della riforma costituzionale neoliberista di Matteo enzi in Italia, l'inopinata crisi di legittimità dell'Unione Europea – per quanto questi fenomeni, pur correlati, differiscano quanto a fini e motivazioni ideologiche, rappresentano tutti il rifiuto dell'ordine (neo)liberista che ha dominato il mondo, particolarmente l'Occidente, negli ultimi trent'anni.
Anche se il sistema si è dimostrato capace (per lo più) di assorbire e neutralizzare simili agitazioni elettorali, nell'immediato non ci sono segni che questa rivolta contro l'establishment possa placarsi. (1) Nel mondo industrializzato il consenso per i partiti anti-establishmant è al suo massimo dagli anni 30, e continua a crescere. (2) Contemporaneamente, il sostegno per i partiti maggiori, inclusi quelli di tradizione socialdemocratica, è crollato. Le cause immediate di questa reazione avversa sono piuttosto ovvie. La crisi finanziaria del 2007-2009 ha posto sotto gli occhi di tutti la terra bruciata che il neoliberismo lascia dietro di sé, per nascondere la quale le élite hanno fatto grandi sforzi, sia materialmente (tramite la finanziarizzazione) sia ideologicamente (tramite i richiami alla “fine della Storia”). Mentre il credito si esauriva, diventava evidente che per anni l'economia aveva continuato a crescere perché le banche stavano distribuendo, per mezzo del debito, il potere di acquisto che l'impresa non forniva col salario. Per parafrasare Warren Buffett, l'abbassamento della marea sollevata dal debito ha rivelato che quasi tutti, di fatto, stavano nuotando nudi.
La situazione, ieri come oggi, si è aggravata ulteriormente a causa delle politiche di austerità e di deflazione salariale perseguite dopo la crisi da molti governi occidentali, particolarmente quelli europei. Questi governi hanno visto nella crisi l'opportunità di imporre un regime neoliberista ancora più drastico, e di perseguire politiche delineate per compiacere il settore finanziario e le classi abbienti, a spese di chiunque altro. Per cui il progetto (ancora da portare a termine) a base di privatizzazioni, deregolamentazioni e tagli allo stato sociale, è stato rilanciato con rinnovato rigore.
In un contesto di crescente insoddisfazione popolare, disordini sociali e disoccupazione di massa in molti paesi europei, le élite politiche di entrambe le sponde dell'Atlantico hanno risposto con argomentazioni e politiche in continuità col passato. Come risultato, il contratto sociale che lega i cittadini ai tradizionali partiti di governo è più a rischio oggi di quanto lo sia mai stato dai tempi della II Guerra Mondiale – e in alcuni paesi è probabilmente già saltato.

Il Declino della Sinistra
Anche limitando il raggio della nostra analisi al periodo postbellico, movimenti e partiti anti-sistema non sono una novità in Occidente. Almeno fino agli anni 80, l'anticapitalismo rimaneva una forza rilevante con cui si doveva fare i conti. La novità è che oggi – a differenza di venti, trenta o quaranta anni fa – sono movimenti e partiti di destra ed estrema destra (insieme a nuove formazioni del neoliberista “estremo centro”, come il partito La République en Marche del neo-presidente francese Emmanuel Macron) a guidare la rivolta. Messi insieme, destra ed “estremo centro” sopravanzano di gran lunga movimenti e partiti di sinistra, sia in termini di forza elettorale sia in termini di influenza sull'opinione pubblica. A parte poche eccezioni, nella maggior parte dei paesi i partiti di sinistra – vale a dire quelli a sinistra dei tradizionali partiti socialdemocratici – sono relegati ai margini dello spettro politico. Contemporaneamente, paese europeo dopo paese europeo, le tradizionali forze socialdemocratiche vengono “pasokizzate” - cioè ridotte all'irrilevanza parlamentare, alla pari di molte delle loro controparti di centro-destra, per via della loro adesione al neoliberismo e all'incapacità di offrire credibili alternative allo status quo. (Il termine “pasokizzato” si riferisce al partito socialdemocratico greco PASOK, praticamente spazzato via nel 2014 come conseguenza della sua inetta gestione della crisi debitoria della Grecia, dopo aver dominato la scena politica per più di trent'anni). Un destino analogo si è abbattuto su molti ex giganti dell'establishment socialdemocratico, quali il Partito Socialista francese e il Partito Laburista olandese (PvdA). Il consenso dei partiti socialdemocratici è oggi al livello più basso degli ultimi settant'anni – e la discesa continua. (3)
Come dovremmo spiegarci il declino della Sinistra – non soltanto il declino elettorale di quei partiti che sono comunemente associati all'ala sinistra dello spettro politico, a prescindere dal loro effettivo orientamento politico, ma anche il declino dei valori fondamentali della Sinistra sia nei partiti sia nella società in generale? Come mai la Sinistra anti-establishment si è finora dimostrata incapace di riempire il vuoto provocato dal crollo della Sinistra di potere [establishment Left]? Più in generale, com'è giunta la Sinistra a contare così poco nella politica globale? È possibile per la Sinistra, sia culturalmente sia politicamente, tornare a essere una forza di primo piano nella nostra società? E nel caso, in qual modo?
In questi ultimi anni la Sinistra ha fatto qualche progresso in alcuni paesi. Esempi significativi includono Bernie Sanders negli Stati Uniti, il partito Podemos in Spagna e Jean-Luc Mélenchon in Francia, così come l'ascesa al potere di Syriza in Grecia (prima che venisse rapidamente rimessa in riga dall'establishment europeo). Tuttavia è innegabile che, per lo più, i movimenti e partiti di estrema destra siano stati più efficaci di quelli di sinistra o progressisti nell'attingere al malcontento di masse diseredate, marginalizzate, impoverite ed espropriate dalla quarantennale lotta di classe scatenata dalle classi dominanti. In particolare, queste sono le sole forze capaci di fornire una risposta (più o meno) coerente alla diffusa – e crescente – aspirazione a una maggiore sovranità territoriale o nazionale. Questa esigenza viene vista sempre di più come l'unico modo, in mancanza di un reale meccanismo rappresentativo sovranazionale, per riconquistare un qualche grado di controllo collettivo su politica e società, e in particolare sui flussi di capitale, sugli scambi e sulle persone che formano il nucleo della globalizzazione neoliberista.
Data la guerra che il neoliberismo ha condotto contro la sovranità, non dovrebbe sorprenderci che “la sovranità [sia] diventata lo schema dominante [master frame] [1] della politica contemporanea,” come nota Paolo Gerbaudo. (4) Dopotutto, lo svuotamento della sovranità nazionale e le restrizioni al meccanismo della democrazia popolare – ciò che si è definito come depoliticizzazione – è stato un elemento essenziale del progetto neoliberista, mirante a proteggere le politiche macroeconomiche dalla contestazione popolare, e a rimuovere qualsiasi ostacolo si opponesse agli scambi economici e ai flussi finanziari. Dati gli effetti nefasti della depoliticizzazione, è del tutto naturale che la rivolta contro il neoliberismo debba primariamente e principalmente assumere la forma di una richiesta impellente di ripoliticizzazione dei processi decisionali nazionali.
Il fatto che alcune visioni della sovranità nazionale si configurino per linee etniche, esclusiviste e autoritarie, non dovrebbe essere visto come incriminante per la sovranità nazionale in se stessa. La storia dimostra che la sovranità nazionale e l'autodeterminazione nazionale non sono intrinsecamente concetti reazionari e sciovinisti – di fatto, essi sono stati il grido di battaglia di innumerevoli movimenti di liberazione, socialisti e di sinistra, nel XIX e XX Secolo.
Anche limitando la nostra analisi ai maggiori paesi capitalisti, è evidente che in pratica tutti i maggiori progressi sociali, economici e politici dei secoli passati sono stati ottenuti tramite le istituzioni dello stato-nazione democratico, e non per mezzo di istituzioni multilaterali, internazionali o sovranazionali. Anzi, le istituzioni globali sono state variamente utilizzate per far regredire quelle medesime conquiste, come abbiamo visto nel contesto della crisi dell'Euro, durante la quale istituzioni sovranazionali (che non rispondono a nessuno) come la Commissione Europea, l'Eurogruppo e la Banca Centrale Europea hanno usato il loro potere e la loro autorità per imporre una rovinosa austerità a paesi in difficoltà. Il problema, per farla breve, non è la sovranità in quanto tale, ma il fatto che questo concetto sia stato abbandonato nelle mani di chi cerca di imporre un progetto xenofobico e identitario. Sarebbe perciò un grave errore liquidare la seduzione del “Trumpenproletariat” da parte dell'Estrema Destra come un caso di falsa coscienza, come osserva Marc Saxer. (5) Le classi lavoratrici si stanno semplicemente rivolgendo agli unici (finora) movimenti e partiti che promettono loro un minimo di riparo dai venti brutali della globalizzazione neoliberista. Che intendano davvero mantenere simili promesse, questo è un altro discorso. A ogni modo, ciò fa sorgere un interrogativo ancora più grande: perché la Sinistra non è stata capace di offrire alle classi lavoratrici e alle classi medie sempre più proletarizzate un'alternativa credibile al neoliberismo e alla globalizzazione neoliberista? Più di preciso, perché non è stata capace di sviluppare una visione progressista della sovranità nazionale? Come diciamo nel nostro libro di imminente uscita, Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World (Pluto, Settembre 2017), le ragioni sono tante e intrecciate tra loro. Per cominciare, è importante comprendere che l'attuale crisi esistenziale della Sinistra ha profonde radici storiche, risalenti almeno fino a anni 60. Se vogliamo capire lo sbandamento della Sinistra, è da qui che la nostra analisi deve iniziare.

La Fine dell'Era Keynesiana
Oggi molti a Sinistra magnificano l'era “keynesiana” del secondo dopoguerra come un'età dell'oro in cui i lavoratori organizzati, insieme a pensatori e politici illuminati (come lo stesso Keynes) furono capaci di imporre ai capitalisti recalcitranti un “compromesso di classe” portatore di un progresso sociale mai visto prima – che però è stato in seguito rintuzzato dalla cosiddetta controrivoluzione neoliberista. Se ne è dedotto, quindi, che per sconfiggere il neoliberismo basterebbe che un numero sufficiente di appartenenti all'establishment adottasse un ordine di idee alternativo [al loro]. Tuttavia, l'ascesa e declino del keynesismo non si può spiegare semplicemente considerando il potere della classe lavoratrice o la vittoria di un'ideologia sull'altra, ma dovrebbe essere vista come il risultato della convergenza fortuita, nel secondo dopoguerra, di una serie di condizioni sociali, ideologiche, politiche, economiche, tecniche e istituzionali.
Non facendolo, si commetterebbe lo stesso errore che in molti, a Sinistra, commisero nell'immediato dopoguerra. Non riuscendo a valutare fino a che punto il compromesso di classe alla base del sistema fordista-keynesiano fosse, di fatto, elemento fondamentale di quello specifico (storicamente) regime di accumulazione, molti socialisti di quel periodo si convinsero “di aver fatto più del dovuto nel modificare l'equilibrio del potere di classe e la relazione tra stato e mercato”. (6) In linea con questo ragionamento, ignorarono il fatto che la classe capitalista aveva attivamente sostenuto il compromesso di classe solo nella misura in cui era funzionale al profitto, e che perciò, una volta cessata la sua utilità, l'avrebbe rigettato. Alcuni affermavano perfino che il mondo industrializzato fosse già entrato in una fase postcapitalista, nella quale tutti gli aspetti caratteristici del capitalismo erano scomparsi per sempre, grazie a una fondamentale traslazione di potere a favore del lavoro e a svantaggio del capitale, e dello stato a svantaggio del mercato. Inutile dirlo, le cose non stavano affatto così. In aggiunta, il monetarismo – precursore ideologico del neoliberismo – aveva cominciato a diffondersi nelle concezioni politiche della Sinistra sin dai tardi anni 60.
In tal modo, nella Sinistra furono in molti a trovarsi sprovvisti degli strumenti teorici necessari per comprendere contrastare adeguatamente la crisi capitalistica che negli anni travolse il modello keynesiano. Si convinsero invece che la lotta distributiva sorta a quell'epoca si potesse risolvere all'interno dei limiti angusti del sistema socialdemocratico. La verità era che il conflitto capitale-lavoro riemerso negli anni 70 si sarebbe potuto risolvere solo in due modi: dalla parte del capitale, attraverso una riduzione del potere contrattuale del lavoro, o dalla parte del lavoro, attraverso un estensione del controllo dello stato su produzione e investimenti. Come mostriamo in Reclaiming the State, riguardo l'esperienza dei governi socialdemocratici britannici e francesi degli anni 70 e 80, la Sinistra non ebbe la volontà di percorrere questa strada. L'unica scelta rimasta fu quella di “gestire la crisi del capitale per conto del capitale”, come scriveva Stuart Hall, legittimando ideologicamente e politicamente il neoliberismo come unica soluzione per la sopravvivenza del capitalismo. (7)
Da questo punto di vista, il governo britannico del laburista James Callaghan (1976-1979) reca gravi responsabilità. In un famoso (o famigerato) discorso del 1976 Callaghan giustificava il programma governativo di tagli alla spesa e moderazione salariale dichiarando che il keynesismo era morto, legittimando indirettamente l'emergente dogma monetarista (neoliberista) e creando di fatto le condizioni perché l'“austerity lite” [austerità moderata] del Partito Laburista venisse rimodulata da Margarett Tatcher in un assalto totale alla classe lavoratrice. Forse ancora peggio, Callaghan rese popolare il concetto che l'austerity fosse l'unica soluzione per la crisi degli anni 70, anticipando il mantra “non ci sono alternative” [there is no alternative (TINA)] di Tatcher, sebbene al tempo alternative radicali esistessero, come quelle proposte da Tony Benn e altri. Ma queste, tuttavia, “nella comune percezione non esistevano più” [no longer perceived to exist]. (8)
In questo senso, lo smantellamento del sistema keynesiano postbellico non può essere spiegato semplicemente come la vittoria di un'ideologia (“neoliberismo”) su un'altra (“keynesismo”), ma interpretato come la risultanza di numerosi, e intrecciati, fattori ideologici, economici e politici: la risposta dei capitalisti al calo dei profitti e alle implicazioni politiche delle strategie per la piena occupazione, i difetti strutturali del “keynesismo reale” [actually existing keynesism]; e la significativa incapacità della Sinistra di proporre una risposta coerente alla crisi del sistema keynesiano, men che meno un'alternativa radicale.

La Globalizzazione e lo Stato
Oltretutto, lungo gli anni 70 e 80, un nuovo (ed errato) concetto condiviso a sinistra cominciò a concretizzarsi nel contesto dell'internazionalizzazione economica e finanziaria – quella che oggi chiamiamo “globalizzazione” - e rese lo stato sempre più impotente rispetto alle “forze del mercato”. Ne conseguiva, questo il ragionamento, che le nazioni non avevano quasi altra scelta che abbandonare le strategie economiche nazionali e qualsiasi strumento tradizionale di intervento nell'economia – imposte e altre barriere commerciali, controllo del capitale, manipolazione di valute e tassi di scambio, politiche fiscali e politiche legate alle banche centrali. Al massimo, avrebbero potuto solo sperare in forme di gestione economica transnazionali o sovranazionali. In altre parole, l'intervento dei governi nell'economia veniva visto non solo come inefficace ma, sempre di più, come del tutto impossibile. Tale processo – generalmente (ed erroneamente) descritto come passaggio dallo stato al mercato – era accompagnato da un attacco feroce contro la stessa idea di sovranità nazionale, sempre più denigrata come reliquia del passato. Come scriviamo in Reclaiming the State, la Sinistra – in particolare la Sinistra europea – in queste vicende ha giocato anch'essa un ruolo essenziale, rafforzando la migrazione ideologica verso una visione del mondo post-nazionale e post-sovranità, spesso in anticipo sulla Destra. Al riguardo, uno dei punti di svolta più consequenziali fu, nel 1983, la svolta verso l'austerità di François Mitterrand – il cosiddetto tournant de la rigueur – appena due anni dopo la storica vitoria elettorale socialista del 1981. L'elezione di Mitterand fece credere a molti che una rottura radicale col capitalismo – almeno con la sua forma estrema affermatasi nei paesi anglosassoni – fosse ancora possibile. Giunti al 1983, comunque, i socialisti francesi erano riusciti a “dimostrare” l'esatto contrario: che la globalizzazione neoliberista era una realtà inevitabile e ineluttabile. Secondo le parole di Mitterand: “Ormai la sovranità nazionale non significa più granché, né possiede un ruolo apprezzabile nella moderna economia globale. (…) È indispensabile un alto grado di sovranazionalità”. (9)
Le ripercussioni del voltafaccia di Mitterand sono percepibili tutt'oggi. Intellettuali progressisti e di sinistra insistono spesso che quella svolta fosse prova del fatto che la globalizzazione e l'internazionalizzazione della finanza avesse posto fine all'era dello stato-nazione e alla sua capacità di perseguire politiche che non siano in consonanza coi diktat del capitale globale. Il concetto è questo: se un governo cerca autonomamente di perseguire la piena occupazione e un piano progressista e redistributivo, inevitabilmente verrà punito dalle forze anonime del capitale globale. Si pretende che Mitterand non avesse altra scelta che abbandonare i suoi progetti di riforme radicali. Per molti sinistrorsi di oggi, Mitterand rappresenta quindi un politico pragmatico consapevole delle forze capitalistiche globali cui doveva far fronte, e abbastanza responsabile da fare quel che era giusto per la Francia.
In realtà, uno stato sovrano che emetta moneta – come la Francia degli anni 80 – lungi dall'essere inerme dinanzi al capitale globale, possiede ancora la capacità di fornire ai propri cittadini piena occupazione e giustizia sociale. Quindi, com'è riuscita l'idea della “morte dello stato” a mettere radici così profonde nella coscienza collettiva? A questa visione postnazionale del mondo era (è) sottesa l'incapacità da parte del personale intellettuale e politico della Sinistra di comprendere – e in qualche caso il tentativo di nascondere – che la “globalizzazione” non era (non è) il risultato di cambiamenti economici e tecnologici inesorabili, ma in gran parte il prodotto di processi gestiti dallo stato. Tutti gli elementi che associamo alla globalizzazione neoliberista – delocalizzazione, deindustrializzazione, libero flusso di merci e capitali eccetera – sono stati (e sono), nella maggior parte dei casi, il risultato di scelte fatte dai governi. Più in generale, gli stati continuano a svolgere un ruolo cruciale nel promuovere, garantire e sostenere la struttura neoliberista internazionale (per quanto le cose sembrino in via di cambiamento) e insieme creare le condizioni interne che permettono all'accumulazione globale di prosperare.
La medesima cosa si può affermare per il neoliberismo tout court. È convinzione diffusa – particolarmente a sinistra – che il neoliberismo abbia implicato (anche oggi) una “marcia indietro”, uno “svuotamento” o “esaurimento” dello stato, il che a sua volta ha rafforzato il concetto che attualmente lo stato sia stato “sopraffatto” dal mercato. Tuttavia, uno sguardo più attento noterà che il neoliberismo non ha comportato un'uscita di scena dello stato quanto piuttosto una sua riconfigurazione, mirata a porre il timone della politica economica “nelle mani del capitale, e principalmente degli interessi finanziari”, come scrive Stephen Gill. (10)
È lapalissiano, dopotutto, che il processo neoliberista non sarebbe stato possibile se i governi – e in particolare quelli socialdemocratici – non fossero ricorsi a tutta una panoplia di strumenti per promuoverlo: la liberalizzazione di merci e flussi di capitale; la privatizzazione di risorse e servizi sociali; la deregolamentazione delle attività d'impresa, e dei mercati finanziari in particolare; la riduzione dei diritti dei lavoratori (primo e più importante, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell'attivismo sindacale; la riduzione delle tasse sulla ricchezza e sul capitale, a spese dei lavoratori e della classe media; la decimazione dei programmi sociali, e via e via. Queste politiche sono state sistematicamente perseguite in tutto l'Occidente (e imposte ai paesi in via di sviluppo) con inedita determinazione, e col sostegno di tutte le maggiori istituzioni internazionali e dei principali partiti politici.
Perfino la perdita di sovranità nazionale invocata nel passato, come lo è tuttora, per giustificare le politiche neoliberiste, è in gran parte il risultato di una volontaria e cosciente limitazione dei diritti sovrani degli stati da parte delle varie élite nazionali. A questo scopo, le svariate politiche adottate dai paesi occidentali includono: (1) ridurre il potere dei parlamenti, a fronte di quella delle burocrazie di governo; (2) rendere le banche centrali indipendenti dai governi, col fine dichiarato di sottomettere questi ultimi a una “disciplina basata sul mercato”; adottare una politica focalizzata sull'inflazione come strategia principale delle banche centrali – un approccio che mette in primo piano una bassa inflazione come principale obbiettivo della politica monetaria, escludendo altri obbiettivi quali, ad esempio, la piena occupazione; adottare regole limitatrici dell'azione politica – sulla spesa pubblica, sulla proporzione debito-PIL, sulla concorrenza eccetera – in modo da limitare quello che i politici possono fare su mandato dei loro elettori; (5) subordinare i settori di spesa al controllo delle tesorerie; (6) riadottare tassi di scambio fissi, che limitano gravemente la capacità dei governi di esercitare il controllo sulla politica economica; e infine, cosa forse più importante, (7) cedere prerogative nazionali nelle mani di istituzioni sovranazionali e burocrazie interstatali quali l'Unione Europea.
La ragione per cui i governi sceglievano volontariamente di “legarsi le mani” è fin troppo chiara: come esemplifica il caso europeo, la creazione di “vincoli esterni” autoimposti ha permesso alle classi politiche nazionali di ridurre il costo politico della transizione neoliberista – che implicava ovviamente politiche impopolari – dando la colpa a regole prestabilite e a istituzioni internazionali “indipendenti”, che a loro volta venivano presentate come il risultato inevitabile delle nuove, crude realtà della globalizzazione.

Lo Statalismo del Neoliberismo
Inoltre, il neoliberismo è stato (ed è) associato a varie forme di autoritarismo di stato – quindi il contrario dello stato minimo invocato dai neoliberisti – dato che gli stati hanno rinforzato il settore securitario e poliziesco, componente di una generale militarizzazione della gestione delle manifestazioni di protesta. In altre parole, non solo la politica economica neoliberista richiede la presenza di uno stato forte, ma addirittura di uno stato autoritario sia a livello nazionale sia internazionale, in particolar modo quando si tratta di forme estreme di neoliberismo, come quelle sperimentate dai paesi periferici. In questo senso, l'ideologia neoliberista, almeno nelle sue vesti antistataliste, dovrebbe essere considerata come un mero, conveniente alibi per quello che è stato, ed è, un progetto essenzialmente politico e statale. Il capitale rimane dipendente dallo stato tanto oggi quanto al tempo del keynesismo – per tenere sotto controllo le classi lavoratrici, salvare grandi imprese che altrimenti finirebbero in bancarotta, aprire mercati in altri paesi (utilizzando a volte l'intervento militare) eccetera. L'ironia suprema, o chiamiamola indecenza, è che i partiti della Sinistra tradizionale, sia al governo sia all'opposizione, sono diventati i portabandiera del neoliberismo.
Nei mesi e anni seguenti al crollo finanziario del 2007-2009, la perenne dipendenza del capitale – e del capitalismo – la dipendenza dallo stato in un'era neoliberista è diventata vistosamente evidente, visto che i governi degli Stati Uniti, Europa e altrove hanno tratto in salvo le rispettive istituzioni finanziarie a colpi di bilioni di dollari. Eppure a quel tempo nessun importante opinionista ha strillato “E i soldi da dove si prendono?” Ben presto, comunque, quegli stessi soggetti, alcuni dei quali diretti beneficiari dei provvedimenti di salvataggio, sono tornati al solito ritornello, ammonendoci che i governi sono in bancarotta, che i nostri nipoti saranno stritolati dal crescente peso del debito pubblico, e che l'iperinflazione è in agguato. Successivamente alla cosiddetta crisi dell'euro del 2010, in Europa tutto questo è stato accompagnato da un assalto su tutti i fronti contro il modello socioeconomico europeo del dopoguerra, con l'obbiettivo di ristrutturare e riprogettare le società e le politiche europee secondo linee maggiormente favorevoli al capitale. Una tale riconfigurazione radicale delle società europee – che, lo ripetiamo, ha visto in prima linea i governi socialdemocratici – non si basa su un arretramento dello stato rispetto al mercato, ma piuttosto da una ri-intensificazione dell'intervento statale a favore del capitale. (11)
Nondimeno, l'idea erronea del declino dello stato-nazione è diventata ormai elemento integrante [entrenched fixture] della Sinistra. Visto quanto sopra, non sorprende affatto che le maggiori formazioni di sinistra siano oggi del tutto incapaci di offrire una concezione positiva della sovranità nazionale che si contrapponga alla globalizzazione neoliberista. A peggiorare ulteriormente la situazione, molti a sinistra si sono bevuti le favole macroeconomiche che l'establishmant utilizza per scoraggiare qualsiasi uso alternativo delle misure fiscali dello stato. Ad esempio, hanno accettato senza fare domande la cosiddetta analogia del “bilancio familiare”, che sostiene che i governi emittenti valuta, come un nucleo familiare, hanno limiti finanziari ineludibili [are financially constrained], e che un deficit fiscale diventa un carico rovinoso per le future generazioni.

Dall'Emancipazione alla Ratificazione dello Status Quo
Tutto ciò procede di pari passo con un altro, parimenti tragico, sviluppo. Dopo la sua storica sconfitta, la tradizionale attenzione anticapitalista della Sinistra verso il concetto di classe ha lasciato il campo a una versione liberal-individualista dell'emancipazione. Soggiogati dalle teorie postmoderniste e poststrutturaliste, gli intellettuali della Sinistra hanno abbandonato le categorie marxiane di classe per concentrarsi invece su elementi del potere politico sull'uso di linguaggio e narrazioni come mezzo per consolidare i significati. Questo cambio di rotta ha anche delineato nuove aree di lotta politica che sono diametralmente opposte a quelle descritte da Marx. Negli ultimi trent'anni l'attenzione della Sinistra si è spostata dal “capitalismo” a questioni come il razzismo, la politica di genere, l'omofobia, il multiculturalismo eccetera. La marginalità non viene più descritta in termini di classe ma in termini di identità. La lotta contro l'illegittima egemonia della classe capitalista ha lasciato il campo alle lotte di una varietà di gruppi e minoranze (più o meno) oppresse e marginalizzate: donne, neri, LGBTQ eccetera. Il risultato è che la lotta di classe ormai non viene più vista come la via per la liberazione.
In questo mondo postmodernista, solo le categorie che trascendono i confini tra le classi vengono considerate rilevanti. In aggiunta, le istituzioni sviluppatesi per difendere i lavoratori contro il capitale – come sindacati e partiti socialdemocratici – sono ormai succubi di questi obbiettivi estranei alla lotta di classe [non-class struggle foci]. Come osserva Nancy Fraser, il risultato che è emerso, praticamente in tutti i paesi occidentali, è una perversa consonanza politica tra “le correnti principali dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ) da una parte, e dall'altra i settori imprenditoriali di servizi 'simbolici' e di fascia alta (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood)”. (12) Il risultato è un progressismo neoliberista “che mette insieme ideali ridimensionati di emancipazione e forme letali di finanziarizzazione,” con i primi che prestano il loro carisma a queste ultime.
Man mano che la società si è andata dividendo sempre di più tra una classe urbanizzata, socialmente progressista, cosmopolita, ben educata, altamente mobile e specializzata, e una classe periferica, a bassa specializzazione, di bassa cultura, che lavora di rado all'estero e che affronta la concorrenza degli immigrati, la Sinistra di governo ha costantemente preso le parti della prima. In effetti, il divorzio tra le classi lavoratrici e la Sinistra intellettuale e culturale può essere considerato uno dei principali motivi dietro la ribellione di destra che investe attualmente l'Occidente. Come ha affermato Jonathan Haidt, il modo in cui le élite urbane globaliste parlano e agiscono innesca involontariamente le tendenze autoritarie di una frangia di nazionalisti. (13) In quest'orribile circolo vizioso, tuttavia, più le classi lavoratrici si volgono verso populismi e nazionalismo di destra, più la Sinistra intellettual-culturale moltiplica le sue fantasie liberali e cosmopolite, esacerbando ancora di più l'etnonazionalismo del proletariato.
Ciò è particolarmente evidente nel dibattito politico europeo in cui, nonostante gli effetti disastrosi di Unione Europea e unione monetaria, la Sinistra di governo – appellandosi spesso ai medesimi argomenti utilizzati più di una generazione addietro da Callaghan e Mitterand – resta aggrappata a simili istituzioni. A dispetto di ogni prova del contrario, la Sinistra di governo afferma che queste istituzioni possono essere riformate in chiave progressista, e rifiuta ogni argomentazione a favore di una nuova agenda progressista basata su una ritrovata sovranità nazionale, bollandola come un “arretramento su posizioni nazionaliste”, destinate inevitabilmente a far precipitare il continente in un fascismo stile anni 30. (14) Una tale posizione, per irrazionale che sia, non desta sorpresa, considerando che, dopotutto, l'unione monetaria europea è un'idea partorita dalla Sinistra europea. Tuttavia, questa posizione presenta numerosi problemi, che in definitiva hanno la loro radice nell'incapacità di comprendere l'autentica natura dell'Unione Europea e dell'unione monetaria. Per prima cosa, si ignora il fatto che la costituzione politica e l'economia dell'UE sono strutturate proprio per ottenere i risultati che abbiamo sotto gli occhi: l'erosione della sovranità popolare, il massiccio trasferimento della ricchezza dalle classi medie e basse a quelle dominanti, l'indebolimento della classe lavoratrice, e più in generale l'arretramento delle conquiste democratiche e socioeconomiche ottenute nel passato dalle classi subordinate. L'UE è progettata appositamente per impedire quel tipo di riforme radicali a cui aspirano i progressisti integrazionisti e federalisti.
Ancora più importante è il fatto che queste posizioni riducono la Sinistra al ruolo di difensore dello status quo, permettendo in tal modo alla Destra politica di monopolizzare le legittime rimostranze anti-sistema (e specificamente anti-UE) dei cittadini. Questo significa cedere alla Destra e all'estrema Destra la lotta discorsiva e politica per l'egemonia post-neoliberismo. Non è arduo accorgersi che se un cambiamento in chiave progressista si può attivare solo al livello globale o europeo – in altri termini, se l'alternativa offerta all'elettorato è tra un nazionalismo reazionario e un progressismo globalista – allora per la Sinistra la battaglia è persa in partenza.

Rivendicare lo Stato
Non dev'essere così per forza, tuttavia. Come spieghiamo in Reclaiming the State, una visione progressista, emancipazionista della sovranità nazionale radicalmente alternativa a quelle della Destra e dei neoliberisti – una visione basata sulla sovranità popolare, sul controllo democratico dell'economia, sul pieno impiego, la giustizia sociale, una redistribuzione dai ricchi verso i poveri, una politica di inclusione, e più in generale la trasformazione socio-ecologica della società e della produzione – una tale visione è possibile. È anzi indispensabile. Come scrive J. W. Mason:
“Qualsiasi ordinamento [sovranazionale] si possa immaginare in linea di principio, l'applicazione concreta degli apparati di sicurezza sociale, delle leggi sul lavoro, della protezione dell'ambiente e della redistribuzione della ricchezza avviene a livello nazionale, ed è perseguita da governi nazionali. Per definizione, ogni lotta mirante alla conservazione la democrazia sociale di oggi è una lotta per difendere le istituzioni nazionali.” (15)
In modo analogo, la lotta per difendere la sovranità democratica contro l'offensiva della globalizzazione neoliberista è l'unica base su cui si possa rifondare la Sinistra, sfidare la Destra nazionalista e ricucire lo strappo tra la Sinistra e la sua “naturale” base sociale – i diseredati. A questo fine, la Sinistra deve anche abbandonare la sua ossessione per le politiche identitarie e recuperare un “concetto di emancipazione più allargato, antigerarchico, egualitario, di classe e anticapitalistico” che un tempo era il suo marchio di fabbrica. Simili priorità, ovviamente, non sono in contraddizione con le lotte contro il razzismo, il patriarcato, la xenofobia e altre forme di oppressione e discriminazione. (16) Abbracciare una concezione progressista della sovranità significa anche lasciarsi alle spalle i tanti falsi miti macroeconomici che affliggono i pensatori progressisti e di sinistra. Come abbiamo già affermato, uno dei miti più diffusi e persistenti è il presupposto che i governi siano schiavi delle loro entrate. Dando credito a simili miti, la Sinistra è diventata incapace di concepire alternative radicali. E tuttavia, è proprio di alternative radicali che c'è bisogno. Come ha osservato di recente Perry Anderson: “Per i movimenti anti-sistema della Sinistra in Europa” - come altrove, del resto - “la lezione di questi ultimi anni è chiara. Se non vogliono farsi sorpassare dai movimenti di destra, non possono permettersi di essere meno radicali nell'attaccare il sistema, e in questa opposizione devono essere coerenti.” (17) In altre parole, la Sinistra deve tornare a essere radicale. In Reclaiming the State illustriamo quelli che riteniamo i requisiti necessari – in termini teorici, politici e istituzionali – per la creazione di una concezione all'interno della quale il perseguimento di un progetto socialmente ed economicamente progressista sia tecnicamente possibile. Questo è ciò che è necessario:

  1. Una concezione corretta delle capacità dei governi monetariamente sovrani (o comunque emittenti valuta), e più specificamente la consapevolezza che simili governi non sono mai vincolati alle entrate e alla solvibilità, dato che emettono la loro moneta con un atto legislativo e di conseguenza non possono “finire i soldi” o diventare insolventi. Questi governi hanno sempre una capacità illimitata di spendere la loro stessa valuta: cioè possono acquistare tutto ciò che vogliono, finché esistono beni e servizi acquistabili con la valuta da loro emessa, e possono utilizzare il loro potere di emettere moneta per finanziare massicci investimenti in infrastrutture sociali e materiali. Come minimo, possono reclutare i disoccupati e riutilizzarli produttivamente (ad esempio, con un Programma di Lavoro Garantito [job guarantee] [2] Questo, naturalmente, non si può applicare a paesi che facciano parte dell'Unione Monetaria Europea. La comprensione della realtà operativa delle moderne economie di emissione valutaria diviene quindi una conditio sine qua non per prefigurare una visione progressista ed emancipatoria della sovranità nazionale.
  2. Una drastica espansione del ruolo dello Stato – e un pari ridimensionamento del ruolo del settore privato – nel sistema di investimenti, produzione e distribuzione. Un progetto progressista per il XXI Secolo deve quindi di necessità comportare una larga ri-nazionalizzazione dei settori chiave dell'economia – incluso, cosa più importante, il settore finanziario – e un nuovo e aggiornato concetto di pianificazione, mirato a porre le leve della politica economica sotto controllo democratico.

Questi due elementi, a nostro avviso, forniscono la base su cui costruire un'alternativa progressista e radicale al neoliberismo, i cui dettagli dovrebbero risultare da un ampio dibattito tra pensatori progressisti, movimenti sociali e pariti politici, a livello nazionale e internazionali.
Per finire, è chiaro che il possesso di un programma socioeconomico convincente non basta per conquistare il cuore e la testa della gente. A parte la centralità dello Stato dal punto di vista politico-economico, la Sinistra deve farsi una ragione del fatto che la gran maggioranza della gente che non appartiene – e mai apparterrà – all'élite internazionale e giramondo, la loro idea di cittadinanza, di identità collettiva e di bene comune sono inestricabilmente legati al concetto di nazionalità. Alla fine dei conti, essere un cittadino vuol dire dibattere con altri cittadini all'interno di una comunità politica condivisa, e far sì che la classe dirigente risponda delle proprie decisioni [hold decision-makers accountable]. Oggi la Destra è vittoriosa perché è in grado di intessere un'efficace narrazione dell'identità collettiva in cui la sovranità nazionale viene sviluppata in chiave nativista o addirittura razzista. I progressisti quindi devono essere in grado di produrre narrazioni e miti altrettanto potenti, che riconoscano il bisogno di appartenenza e interconnessione degli esseri umani. In questo senso, una visione progressista della sovranità nazionale dovrebbe mirare alla ricostruzione e ridefinizione dello stato-nazione come luogo in cui i cittadini possano trovare rifugio nella “sicurezza nella democrazia [democratic protection], la legalità popolare, l'autonomia locale, i beni collettivi e le tradizioni egualitariste” piuttosto che in una società culturalmente ed etnicamente omogeneizzata, come dice Wolfgang Streeck. (18) Questo è anche il requisito indispensabile per la costruzione di un nuovo ordine internazionale, basato sull'interdipendenza, e tuttavia indipendenza degli stati nazionali.

Articolo apparso in origine su American Affairs, Volume I, Numero 3 (Autunno 2017), pagg. 75-91

Note
1 See Perry Anderson, “Why the System Will Still Win,” Le Monde diplomatique, Marzo 2017.
2 Ray Dalio et al., Populism: The Phenomenon, Bridgewater, 22 marzo 2017.
3 “Rose Thou Art Sick,” Economist, 2 aprile 2016.
4 Paolo Gerbaudo, “Post-Neoliberalism and the Politics of Sovereignty,” openDemocracy, 4 novembre 2016.
5 Marc Saxer, “In Search of a Progressive Patriotism,” Medium, 15 aprile 2017.
6 Adaner Usmani, “The Left in Europe: From Social Democracy to the Crisis in the Euro Zone: An Interview with Leo Panitch,” New Politics 14, no. 54 (Inverno 2013), http://newpol.org/content/left-europe-social-democracy-crisis-euro-zone-interview-leo-panitch.
7 Stuart Hall, “The Great Moving Right Show,” Marxism Today (Gennaio 1979): 18.
8 Colin Hay, “Globalisation, Welfare Retrenchment and ‘the Logic of No Alternative’: Why Second-Best Won’t Do,” Journal of Social Policy 27, no. 4 (Ottobre 1998): 529.
9 John Ardagh, France in the New Century: Portrait of a Changing Society (London: Penguin, 2000), 687–88.
10 Stephen Gill, “The Geopolitics of Global Organic Crisis,” Analyze Greece!, 5 giugno 2015, http://www.analyzegreece.gr/topics/greece-europe/item/231-stephen-gill-the-geopolitics-of-global-organic-crisis.
11 Richard Peet, “Contradictions of Finance Capitalism,” Monthly Review 63, no. 7 (Dicembre 2011), https://monthlyreview.org/2011/12/01/contradictions-of-finance-capitalism/.
12 Nancy Fraser, “The End of Progressive Neoliberalism,” Dissent, January 2, 2017, https://www.dissentmagazine.org/online_articles/progressive-neoliberalism-reactionary-populism-nancy-fraser.
13 Jonathan Haidt, “When and Why Nationalism Beats Globalism,” American Interest 12, no. 1 (Luglio 2016), https://www.the-american-interest.com/2016/07/10/when-and-why-nationalism-beats-globalism/.
14 Yanis Varoufakis e Lorenzo Marsili, “Varoufakis: ‘A un anno dall’Oxi, non rifugiamoci nei nazionalismi. Un’Europa democratica è possibile,’” La Repubblica, July 8, 2016, http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/08/news/varoufakis_a_un_anno_dall_oxi_non_rifugiamoci_nei_nazionalismi_un_ europa_democratica_e_possibile_-143703316/.
15 J. W. Mason, “A Cautious Case for Economic Nationalism,” Dissent (Primavera 2017), https://www.dissentmagazine.org/article/cautious-case-economic-nationalism-global-capitalism.
16 Fraser, “The End of Progressive Neoliberalism.”
17 Anderson, “Why the System Will Still Win.”
18 Wolfgang Streeck et al., “Where Are We Now? Responses to the Referendum,” London Review of Books 38, no. 14 (14 luglio 2016), https://www.lrb.co.uk/v38/n14/on-brexit/where-are-we-now.


note del traduttore
[1] Master frame: cfr. (a cura di) Nicola Montagna, I movimenti Sociali e le Mobilitazioni Globali, Franco Angeli 2007, pagg. 28 e sgg.
[2] Crf. qui.

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