sabato 28 dicembre 2019

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto
 
Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclusione nasce incrociando alcune fonti rilevanti con una analisi delle dinamiche del capitalismo finanziario. Notizia divulgata da Repubblica il 31 ottobre scorso: il sistema delle pensioni italiane è insostenibile; lo sostiene un rapporto comparativo che colloca il nostro paese al 27° posto in una classifica di 37 sui requisiti di adeguatezza, integrità e sostenibilità dei sistemi previdenziali. È l’ultimo che ci trascina in basso, anzi che relega l’Italia in fondo; pensioni così non potremo permettercelo più.
Se si guarda il dettaglio delle argomentazioni – sviluppato in modo molto approssimativo – si trova oltre ad un rapporto fra spesa presumibile nel futuro in base alla demografia ed altri fattori come la misura della forza lavoro, il debito pubblico un ossessivo riferimento allo sviluppo della previdenza complementare. Se le pensioni private sono ben sviluppate il futuro è roseo, altrimenti si tinge di bruno. Un criterio discutibile? Senz’altro. Se il quotidiano diretto da Carlo Verdelli avesse specificato la provenienza del rapporto tutto sarebbe stato più comprensibile: il Melbourne Mercer Global Pension Index è uno studio del Gruppo Mercer, posseduto da Marsh & McLennan , una potentissima azienda con sede a NY specializzata in assicurazioni private. Un rapporto di un venditore di polizze assicurative che raccomanda l’ingrandimento della previdenza privata suona molto diversamente (l’oste che dice che il vino buono insomma). Forse miglior prova di giornalismo sarebbe stato completare la notizia…
La “riforma delle pensioni” è entrata nel lessico politico corrente. Chi la sa decifrare non ha bisogno di giri di parole. L’intento del presidente Macron che la sta portando avanti è abbastanza chiaro al confindustriale quotidiano Les Echos: far lavorare per più anni; vale a dire tagliarle. La prospettiva non è risultata particolarmente gradita ai destinatari, che sotto la guida delle maggiori sigle sindacali sono entrati a natale nel 22simo giorno di sciopero continuativo in vari settori. Le ballerine che danzano Il Lago dei Cigni per protesta dinnanzi l’ Opéra hanno fatto il giro del mondo.
Il caso francese è celebre per la forte resistenza che ha fatto parlare di sé; ma riforme delle pensioni di segno simile si sono verificate in numerosi paesi, come indica la pubblicazione di OECD Pensions at glance 2019. La pressione delle organizzazioni internazionali a potenziare le pensioni private è fortissima. Ma perché?
In parte ovviamente per il guadagno diretto di tale gestione. Ma anche per una ragione più generale: il mercato dei capitali privati diventa il principale referente sociale e deve sbarazzarsi della concorrenza. Cioè dello Stato.
Il motivo è il seguente: nel sistema keynesiano e fordista alti salari sono necessari per alimentare la produzione – il lavoratore non compra se non ha soldi. Con l’indebitamento privato che si sostituisce agli innalzamenti salariali (si consuma sempre più indebitandosi) si amplifica la diseguaglianza, aumentando le risorse delle classi abbienti. Ma cosa se ne fanno queste del proprio surplus di capitali? Oltre a nutrire consumi di lusso investono in qualcosa che garantisca profitti ulteriori: la finanza speculativa. Per esempio la febbre di fusioni fra grandi aziende; che non diventano più grandi solo per competere meglio o occupare i mercati con forme di oligopolio. Ma perché fondersi significa trarre da due aziende che vengono 50 una che ne vale 125. Il 25 in più chi lo mette? Il risparmio privato. L’investimento finanziario ha un senso se si coinvolgono pure le classi lavoratrici, privandole della alternativa rappresentata dallo Stato per spingerle al casinò finanziario. Da qui sorge l’odio ideologico per la gestione pubblicistica della previdenza. E non è solo un fattore di aumento del rischio (che ovviamente c’è); il gioco è truccato, e se il croupier è d’accordo nel far vincere alcuni giocatori non è una gestione inadeguata. È conflitto di classe.

Violenza politica, terrorismo, lotta armata



di Antonio Iannello da lavoroculturale.org


Parole, memoria e ricerca in un’intervista a Monica Galfré.


Nel 2006 un sondaggio («Corriere della Sera» del 13 dicembre, p. 25) condotto su 1024 studenti milanesi tra i 17 e i 19 anni ebbe il seguente esito: per il 60 per cento di loro la bomba a piazza Fontana era stata messa dalle Brigate Rosse, mentre il 20 per cento dava la colpa alla mafia. Meno del 10 per cento era in grado di individuare la matrice dell’eversione neofascista. Da allora gli equivoci e le confusioni (più o meno volute) sugli anni della violenza armata non sono diminuite, andando a consolidarsi con progetti istituzionali e mediatici di pacificazioni forzate o di spiegazioni di tipo complottista. Proviamo a fare un lavoro di ri-costruzione della memoria con l’aiuto di Monica Galfré, storica che da anni si occupa di ricerca anche nel campo della lotta armata e della violenza politica in Italia.



 

Antonio Iannello: La violenza del decennio 1970-1980. In quale quadro storico deve essere inserita per essere compresa oggi? Non si chiede ovviamente se vi siano elementi per giustificarla, quanto per inserirla nel giusto contesto. Chi ha ucciso i componenti della scorta di Moro e lo stesso presidente della DC non dovrebbe essere considerato a livello giuridico e morale con gli stessi criteri di assassini comuni, di mafiosi come Riina, di chi ha ordinato e messo la bomba a Bologna nel 1980? Ci puoi fornire alcuni elementi fondamentali di contesto per comprendere quel periodo? Senza poter essere esaustivi ma per tracciare una linea, un orientamento di base.

Monica Galfré: La vicenda italiana si inserisce nell’ondata di conflittualità sociale e di violenza politica che si sprigiona a partire dal ’68, evento globale per eccellenza. Si tratta di quello che secondo alcuni studiosi è il terzo dei quattro cicli storici del terrorismo, che assume però caratteristiche e intensità molto variabili da luogo a luogo. Limitandosi al solo quadro europeo, che appare nondimeno molto variegato (ne fanno parte l’Ira in Irlanda e l’Eta in Spagna, espressioni armate di nazionalismi separatisti, senza legami diretti con la contestazione studentesca), risultano evidenti i riferimenti comuni, gli esempi forniti dalla guerriglia urbana in America Latina o in Nord America, gli echi delle guerre di decolonizzazione (si pensi solo all’Algeria e al Vietnam); e non mancano talvolta neanche gli aiuti reciproci, secondo concrete esigenze come quella delle armi.

Il caso italiano si distingue dal resto d’Europa per durata, intensità e radicamento della violenza politica e dell’eversione armata, sia di destra che di sinistra, all’interno di un panorama estremamente composito anche da un punto di vista tipologico e organizzativo, di cui la stessa ricerca – non ultimo perché la condanna ha a lungo prevalso sull’analisi – fatica a dare conto. In Italia però gli anni Settanta corrispondono anche a una fase decisiva della modernizzazione culturale e civile, che riallinea il Paese ai livelli occidentali.

Questo nodo contraddittorio è riconoscibile in una serie di punti che si possono schematicamente ricordare. Innanzitutto il ’68 italiano è un fenomeno più radicale e meno elitario che altrove, si diffonde non solo nelle università, ma in tutte le scuole secondarie e si mescola subito a un risveglio della conflittualità operaia. La crescita del livello di istruzione, che è molto rapida, crea un gap ancora più profondo che in altri Paesi tra i giovani – una categoria che assume una valenza interclassista – e le generazioni precedenti. Gli istituti tecnici e professionali, dove le classi sociali fino ad allora escluse dalla scolarizzazione secondaria hanno cominciato a mandare i propri figli soprattutto dopo l’istituzione della scuola media unica nel 1962, uniscono la propria rabbia sociale a quella espressa dai licei, che pure hanno connotazione sociale e culturale ben diversa, proprio mentre si manifestano le prime avvisaglie di crisi economica. In questi tratti emergono gli squilibri della modernizzazione italiana, della rapida e traumatica trasformazione dell’Italia da Paese contadino a industriale, che introietta i comportamenti di una società di massa senza risolvere problemi e tare di lungo periodo.

A tutto questo va associata la dirompenza delle lotte operaie dell’autunno ’69, il cosiddetto autunno caldo, che determina una saldatura tra studenti e operai destinata a caratterizzare gli anni Settanta italiani, e al quale si associa piazza Fontana, con l’inizio della cosiddetta strategia della tensione, che appare una reazione al cosiddetto biennio rosso, cioè al ’68 studentesco e al ’69 operaio. Non è un caso che qualcuno consideri il ’69 più periodizzante dello stesso ’68. Di qui inizia quel ciclo di conflittualità, che tra alti e bassi si protrae per tutto il decennio – il lungo ’68 italiano –, assumendo caratteri radicali nelle metropoli operaie del nord.

La strategia della tensione – non solo le stragi neofasciste, ma anche un insieme di strutture segrete e tentativi eversivi, come il golpe Borghese del 1970 – è una particolarità tutta italiana, senza dubbio legata al passato, oltre che al clima della Guerra fredda: si sviluppa nel Paese sede del più forte partito comunista d’Occidente e si muove all’interno di una intricatissima trama, tra mondo militare, servizi segreti, interessi internazionali e responsabilità dello Stato; colpisce nel mucchio, non rivendica i suoi attentati, a differenza di quelli di sinistra, e si articola in livelli diversi, non sempre legati tra loro. Fino al 1974, quando le stragi di Piazza della Loggia e del treno Italicus nel 1974 chiudono la prima fase della strategia della tensione, i reati politici, compresi quelli di piazza, sono in maggioranza di destra; vi incide senz’altro il Msi di Giorgio Almirante, segretario dal 1969, che riporta dentro il partito le organizzazioni più estremiste, accrescendo – dopo le agitazioni del ’68 – l’attenzione per la componente giovanile in funzione anticomunista.

Difficile sostenere che su questo quadro non eserciti un peso la memoria dei vent’anni di dittatura fascista e della Resistenza, intesa come guerra civile (ben prima che Claudio Pavone, con l’omonimo libro, la riconoscesse tale), tanto più che la sopravvivenza di regimi fascisti in Portogallo, Spagna e Grecia rafforzava il timore di un colpo di Stato. Era una ferita ancora aperta: si pensi che il presidente della Camera Sandro Pertini, recatosi a Milano per il funerale delle vittime di piazza Fontana, si rifiutò di stringere la mano al questore, che era stato suo carceriere al confino.

A questo si lega anche il ruolo ambiguo giocato dall’antifascismo, che diventa un collante straordinariamente forte per tenere insieme tutta la sinistra italiana, da quella ufficiale a quella estrema, che si può dire regga fino alle tragiche giornate dell’aprile 1975, quando nel clima di grande aspettativa per l’affermazione del Pci alle elezioni amministrative si verificano scontri di piazza con vittime sia a sinistra che a destra. Gli anni Settanta paiono così rompere il periodo di lungo benessere dell’età dell’oro, facendo riemergere il fiume carsico delle lacerazioni prodotte dalla guerra civile europea, in particolare il fascismo e la Resistenza. L’idea di una continuità tra Stato fascista e Stato repubblicano fornisce ai militanti della lotta armata una sorta di legittimazione di fronte all’illegalità della loro scelta. Niente di simile si riscontra neanche in Germania, che ha conosciuto l’esperienza nazista ma non quella partigiana.

Infatti, se il terrorismo di destra è in qualche modo dentro lo Stato, contro lo Stato è senza dubbio quello di sinistra, che assume dimensioni inedite e caratteristiche nuove intorno alla metà del decennio, con il cosiddetto cambio di colore della violenza politica: da nero a rosso, in corrispondenza di profonde trasformazioni sul piano nazionale e internazionale. Da una parte la fine dell’età dell’oro e la crisi dell’economia occidentale, il tramonto di Nixon con lo scandalo Watergate e il crollo delle dittature fasciste in Portogallo, Grecia e Spagna; dall’altra la crisi dell’egemonia democristiana emersa con il referendum sul divorzio, la crescita elettorale del Pci e l’ipotesi del compromesso storico. È in questo contesto che, con il sequestro del procuratore genovese Mario Sossi, prende corpo l’attacco al cuore dello Stato delle Br, attive dal 1969-70.

Tuttavia le Br sono solo una parte di uno scenario eversivo complesso e articolato, che costituisce la vera peculiarità del periodo. La dissoluzione dei gruppi extraparlamentari, da Lotta continua a Potere operaio, lascia il posto a un’area politica magmatica, soggetta a continui fenomeni di scioglimento e di riaggregazione, all’interno della quale l’opzione della violenza si fa più esplicita di quanto non fosse nella prima metà del decennio. È questo il momento in cui, dopo essere stato a lungo teorizzato e legittimato a parole, l’omicidio politico entra nella fase di attuazione. È così che cominciano a moltiplicarsi – ne sono state contate centinaia –formazioni più o meno estemporanee ed effimere, una vera e propria galassia, al cui interno si distingue nettamente Prima linea per gravità di attentati e numero di processati. La sua è un’ipotesi di lotta armata alternativa (almeno sulla carta) all’attacco al cuore dello Stato delle Br, quando non direttamente avversa, che riadatta l’ideologia operaista rivendicando uno stretto legame con il movimento.

L’eversione di sinistra, persino nel caso della formazione più centralizzata, quella delle Br, si rivela un mosaico di esperienze diverse tra città e città – si pensi solo alla polverizzazione delle sigle – che suggerisce di parlarne sempre al plurale. La lotta armata è un fenomeno che si alimenta della conflittualità sociale complessa, non solo operaia, di cui le metropoli in particolare sono espressione. Colpisce la marginalità del Sud (anche se vi presero parte non pochi meridionali, operai emigrati nel triangolo industriale e studenti fuori sede), che sembra riprodurre una divisione in due del Paese di lungo periodo, rinnovata anche dalla guerra civile 1943-45.

Il movimento del ’77, l’ultima mobilitazione politica del secolo, è una ulteriore conferma della peculiarità italiana. Nel momento in cui altrove si comincia a parlare di fine delle ideologie e di riflusso, il Paese è investito da una fiammata di violenza politica, se pur condita con elementi inediti e componenti diverse, che contribuisce a sfumare sempre di più i confini tra legalità e illegalità. Se il Pci veste i panni di partito dell’ordine, sancendo la rottura irreversibile con l’estremismo, il movimento del ’77 costituisce un consistente bacino di reclutamento sia per i gruppi esistenti che per quelli in formazione; proprio mentre la crisi dei collettivi autonomi, tra il 1978 e il 1979, partorisce decine di gruppi clandestini. Tra il ’77 e l’82 è commesso il 90 per cento di tutti gli attentati, con una crescita evidente degli omicidi.

L’acceleratore decisivo è il clamoroso rapimento – e poi l’omicidio – di Aldo Moro, culmine del terrorismo di sinistra, ma anche inizio della sua fase più intensa, con l’attivazione di aree eversive diverse. Nel 1979 l’omicidio dell’operaio comunista e sindacalista della Cgil Guido Rossa da parte delle Br, e quello del giudice progressista Emilio Alessandrini a opera di Prima linea, segnano un punto di non ritorno che mette in crisi una parte degli stessi militanti. Lo stesso 1980 – quando compaiono i primi pentiti e la marcia dei 40.000 pone fine al ciclo di lotte operaie iniziato con l’autunno caldo – è l’anno peggiore, con ben 125 vittime, tra cui il giornalista del «Corriere della sera» Walter Tobagi, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Vittorio Bachelet e molti altri, insieme agli 85 morti della bomba alla stazione di Bologna, che indica il drammatico riaffiorare dello stragismo.

In termini quantitativi il bilancio del decennio di piombo e dei conflitti di piazza – 500 morti, oltre 2000 feriti, decine di migliaia di miliardi di danni materiali – non è certo trascurabile, anche se sono numeri che in una prospettiva mondiale di più lungo periodo sembrano perdere rilevanza. Tuttavia il senso della profonda lacerazione di quegli anni è nelle cicatrici che non si possono quantificare: gli effetti prodotti dall’attacco eversivo sul quadro politico e istituzionale, tra cui il prezzo pagato dalla democrazia all’emergenza, che si dispiega su più livelli: legislativo, giudiziario e carcerario.

Vi si associa l’oscura percezione di un pericolo prossimo e dissimulato nelle pieghe della società, che ha in qualche modo a che fare con i nodi rimasti insoluti della storia nazionale. I terroristi di destra e di sinistra sono figure incomparabili, ma sia tra gli uni che tra gli altri sono molti i ragazzi normali, persino di buona famiglia; è in questo senso paradigmatico il caso del militante di Prima linea Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, vicesegretario della Dc e più volte ministro, che sembra riassumere il terrorismo in una resa dei conti tra padri e figli. Ma si pensi anche agli ambienti della Roma bene, così contigui al terribile delitto a sfondo sessuale del Circeo, cui appartengono molti giovani neofascisti; e, per gli anni successivi, all’esperienza così diversa dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro.

L’idea dell’attacco esterno, che invece prevale a lungo alimentando dietrologie più o meno fantasiose, ha una innegabile funzione rassicurante; cui contribuisce anche l’insistenza sulla dimensione minoritaria dei fenomeni eversivi – di pochi violenti, folli, agenti dei servizi segreti e simili – che tradisce la difficoltà a prendere atto delle dimensioni e della natura del problema. 




A.I.: C’è differenza fra i modi in cui le questioni della lotta armata, del terrorismo, della violenza politica sono affrontate oggi rispetto ai mesi e agli anni immediatamente successivi o al periodo stesso in cui queste vicende avevano luogo?

M.G.: La lucidità delle analisi coeve, a ridosso dei fatti, è sorprendente se letta oggi. Colpisce, in particolare, il dibattito sull’uscita dall’emergenza, alla metà degli anni Ottanta, che riguarda soprattutto l’eversione di sinistra e si rivela in grado – con tratti di apertura e spregiudicatezza oggi impensabili – di risvegliare la coscienza del Paese su aspetti cruciali della convivenza civile e dell’esistenza umana. I cosiddetti anni di piombo rappresentano un profondo trauma, tale da cambiare il rapporto della società italiana con la violenza, innescando una seria riconsiderazione della legittimità del suo uso, non solo in coloro che ne erano stati gli esecutori più convinti (la diffusione dei movimenti per la pace degli anni Ottanta-Novanta trae di qui uno dei suoi impulsi). Ci sono giornalisti come Giorgio Bocca e Corrado Stajano; magistrati come Luigi Guicciardi e Marco Ramat, vicino al Pci e fondatore di Magistratura democratica, solo per citare i primi che mi vengono in mente; ma anche politici in molti schieramenti che, pur condannando senza alcun tentennamento la lotta armata e la violenza politica, cercano di collocare il fenomeno armato in un contesto che dia loro elementi utili per comprenderne le origini e il radicamento, la natura sui generis che lo distingue dai reati comuni, così come il generale Dalla Chiesa fa di fronte alla Commissione parlamentare su via Fani. Anche i militanti, ormai carcerati, a ridosso degli eventi mostrano una disponibilità a rileggere in termini autocritici la loro esperienza: una disponibilità che si è con il tempo consumata, erosa, in un clima che non ha favorito il delicato meccanismo dell’autocritica.

I motivi di questo irrigidimento generale sono molti e complessi. Con il tramonto delle utopie e il crollo del muro di Berlino, la fine del mondo comunista e del concetto stesso di rivoluzione, l’impressione netta di una sconfitta del movimento operaio ha ridotto la sensibilità nei confronti di un fenomeno che, piaccia o meno, fa parte della storia della sinistra; inoltre, così come è successo per la Shoah e per violenze di altra natura, la memoria ha conquistato un peso crescente, tanto che negli ultimi anni le vittime del terrorismo hanno conquistato una indubbia «centralità», in una stringente polemica nei confronti del protagonismo degli ex terroristi e della loro pretesa di raccontare – quasi per un’ennesima anomalia del Paese – la tragedia nazionale di cui essi stessi sono stati i responsabili.

A confronto con la lucidità della metà degli anni Ottanta, l’immagine restituita in questi ultimi anni dai media e dagli studi storici risulta assai più opaca. Se il punto di vista delle vittime contribuisce a ricostruire l’impatto del terrorismo sulla società, il prevalere dell’atteggiamento di condanna e di «una lettura giudiziaria della storia» che esso porta con sé non rende un buon servizio alla storia. Come ha scritto Traverso a proposito di questa tendenza generale, alle vittime è stato restituito giustamente un volto, ma «le ragioni della loro morte» rischiano di diventare «incomprensibili».

Nonostante l’interesse crescente, storia della lotta armata e storia della Repubblica dialogano ancora a fatica, eludendo la domanda di fondo: perché e come l’Italia ha rappresentato un caso imparagonabile al resto d’Europa per durata, intensità e radicamento sociale; quanto e come quel trauma ha segnato la vita del Paese, al di là del peso incancellabile di più di 140 morti, migliaia di feriti e innumerevoli attentati?

A.I.: La semplificazione di media e saggistica, testi, video, oggi social media, sul periodo della lotta armata, del terrorismo, della violenza politica ha portato confusione e ha inciso sulla memoria. Ci sono o ci sono stati a suo parere documentari, testi divulgativi, trasmissioni televisive e radiofoniche che hanno provato a restituire elementi di verità o per lo meno di comprensione storica che suggerirebbe a una studentessa o a uno studente che vuol cominciare a informarsi?

M.G.: La violenza politica di quegli anni è un tema scottante, con cui non si sono fatti i conti; mi pare ancora evidente la difficoltà a considerarli parte integrante e non separata della storia di questo Paese. Di conseguenza continuano a prevalere, su quelle della storia, le esigenze e le sfide, non sempre compatibili, della giustizia e della memoria pubblica, tipiche di un XX secolo letto come secolo della violenza. Anche nelle trasmissioni culturali e nei documentari che compaiono sui media l’esigenza della condanna appare ancora soverchiante, come se questa sostituisse la conoscenza, anziché soffocarla. La tendenza a presentare il fenomeno come isolato da tutto ciò che allora si agitava nella società è in questo senso indicativo: del resto il recente arresto di Cesare Battisti – presentato dai media come il trionfo di una giustizia rigorosa dopo anni di lassismo – ha riprodotto questo cliché, schiacciando tutta la vicenda sulle esigenze del presente.

Il ritardo nell’acquisizione di una distanza critica non fa bene neanche ai linguaggi narrativi diversi da quello storico. Non è un caso che la violenza politica, il terrorismo e in genere gli anni Settanta italiani, salvo rarissime eccezioni, risultino tra i soggetti meno rappresentabili anche dal cinema e dalla letteratura, che non hanno trovato immagini per riprodurli e parole per raccontarli. Perché anche le arti, come la ricerca storica, hanno bisogno di libertà intellettuale. Confrontando il caso italiano con quello tedesco, nel cinema Germania batte Italia 4 a 3: il cinema tedesco sin dai tempi di Germania in autunno, girato nel 1978 dai più geniali registi di avanguardia, si è inserito fecondamente nel dibattito sul terrorismo e sulla lotta al terrorismo, senza peraltro perdere niente sul piano della qualità. Non è certo un caso che l’espressione “anni di piombo” – tanto abusata quanto imprecisa per il caso italiano – derivi dal titolo del magistrale film tedesco firmato da Margarethe Von Trotta.

Sembra quindi che la rappresentazione cinematografica sia meno efficace laddove la ferita e il coinvolgimento della società sono stati più profondi. Proprio il film Germania in autunno fa risaltare un’altra differenza: in quel film si discuteva se mandare in onda un’Antigone alla televisione mentre fuori imperversava il terrorismo della Raf, ma in Italia l’Antigone fu rappresentata in carcere, durante il primo convegno tenutosi a Rebibbia nel 1984. In Germania, quindi, dove la repressione procedette senza incontrare ostacoli di rilievo, il cinema sembra aver assolto alla funzione che in Italia è stata di una porzione consistente della società civile, convinta dell’impossibilità di avere ragione del terrorismo con la sola forza.

Tra le trasmissioni televisive che mantengono a tutt’oggi la loro validità, esempio di grande giornalismo di inchiesta storica, c’è sicuramente «La notte della Repubblica» di Sergio Zavoli, che contiene ancora una sua validità, per lo sforzo innegabile di andare al di là del giudizio e della condanna, per la capacità del grande giornalista di mettersi tra parentesi e lasciar parlare un numero impressionante di esperti, testimoni e protagonisti per decifrare fenomeni complessi a tragici quali le Br, i tentati golpe, le stragi, la strategia della tensione, e con il merito di tenere insieme, senza banalizzazioni l’onda lunga dell’Italia delle eversioni, delle stragi, della contestazione e del terrorismo. È comunque una trasmissione figlia del suo tempo: andò in onda a ridosso degli avvenimenti, dal dicembre 1989 all’aprile 1990, quando – come si è visto – c’era paradossalmente un clima più aperto di adesso.

A.I.: Di fronte alla violenza politica c’è o ci deve essere differenza fra l’azione dello Stato e la riparazione del torto spesso tragico e privo di consolazione per i parenti delle vittime?

M.G.: La dialettica tra vittime e carnefici tende alla lunga a trasformarsi in un vicolo cieco, e non solo per la ricerca. Negli anni Ottanta non sono stati pochi i casi di incontro e confronto con gli ex terroristi, voluti dalle vittime alla umanissima ricerca di un perché. Si pensi a Sergio Lenci, fortunosamente sopravvissuto a un attentato di Prima linea e costretto a vivere con una pallottola nella nuca, che decide di incontrare la sua attentatrice tramite la mediazione di padre Bachelet (fratello di una vittima illustre delle Br). Si tratta sempre di incontri deludenti, che approfondiscono le distanze invece di ridurle, risolvendosi spesso in un sentimento di pietà verso i colpevoli che non placa la rabbia e aggiunge dolore al dolore. Nel libro sulla vita e sull’omicidio di suo padre, Benedetta Tobagi ha parlato con grande lucidità del «bisogno, disperato, di riconoscimento» della vittima, che si nutre di sentimenti ambivalenti e che è per questo destinato a non trovare mai soddisfazione. Si chiede ai carnefici di farsi carico della colpa smisurata di aver ucciso un innocente; ma allo stesso tempo l’enormità del male commesso è tale da risultare irrimediabile, con l’effetto di rendere inadeguati qualsiasi spiegazione, qualsiasi gesto. Ne erano ben consapevoli molti ex militanti, che dicevano di nutrire poca fiducia nella capacità comunicativa delle parole, prendendo talvolta le distanze dagli atti di manifesta resipiscenza, visti come una seconda violenza nei confronti di chi già aveva patito una perdita dolorosa. Del resto nell’omicidio politico si scontrano, in modo contraddittorio, il processo di astrazione e quello di personalizzazione dello scontro politico: perché si sparava a una funzione, ma si uccideva una persona.

D’altra parte iniziative come quelle di cui ha fornito testimonianza Il libro dell’incontro (Il Saggiatore), cioè il mettere di fronte vittime e carnefici, finiscono – pur partendo da presupposti “riparativi” e non vendicativi – per sottrarre al contesto un fenomeno che non può essere letto né tantomeno compreso al di fuori del suo tempo.

Al termine dei primi grandi processi che si poterono avvalere della presenza dei pentiti, giunsero anche le prime richieste pubbliche di perdono che, pur diverse nel tono e nei contenuti, suonarono ugualmente stonate. Il confronto personale tra chi ha procurato e chi ha subito l’offesa si è rivelato in ogni caso inadeguato, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Lo Stato è chiamato anche in questo caso, e forse più che in altri casi, vista la natura dei reati, a giocare un ruolo super partes: nel concetto stesso di giustizia è implicita l’esigenza di una mediazione tra interessi diversi. Del resto, se pur con risultati talvolta discutibili, le istituzioni non si sono sottratte. La legge sui pentiti e quella dissociazione, che in qualche modo abbozzano una sorta di primissima soluzione politica, ne sono un esempio. Ma è anche vero che è proprio sulla questione del terrorismo che si registra (ora più di prima) una sorta di regressione sul piano del diritto, come se la gravità dei fatti autorizzasse a mettere in mora – invece che riaffermare con più forza – i fondamenti del sistema giudiziario e penale, dello Stato stesso.

A.I.: Cosa si può dire sull’uso del reato associativo e in generale sul sistema repressivo e penale anche in fase istruttoria, messo in atto dallo Stato nel contrasto alla violenza politica? Cosa è stato il teorema Calogero, e ha avuto una sua efficacia?

M.G.: Sulla lotta al terrorismo e sulle modalità con cui è stata combattuta prevalgono giudizi contrapposti e preconcetti, dietro cui si intravedono il monopolio della memoria e la sua capacità di influenzare una parte dell’opinione pubblica e anche degli studiosi. Per gli ex militanti non fu nient’altro che repressione brutale, mentre i magistrati dell’antiterrorismo e chi ne ha condiviso le scelte hanno parlato di pieno rispetto della Costituzione. Nel Libro degli anni di piombo (Rizzoli), curato da Mattard-Bonucci/Lazard, due magistrati come Caselli e Spataro lo affermano con nettezza, mentre lo stesso Dalla Chiesa fece a suo tempo trasparire, senza tanti filtri, la necessità di una certa libertà di movimento da regole troppo rigide per combattere un nemico di cui, almeno finché Peci non sollevò il velo sull’universo eversivo, si era capito poco o nulla. In una recente intervista di Giuliano Ferrara si parla, con una certa onestà, di giusta sospensione dello stato di diritto.

La lotta al terrorismo non poté del resto procedere come un’operazione chirurgica che estirpa il male da un organismo sano. La sua improvvisazione e la sua iniziale inefficacia furono in buona parte dovute non tanto alla storica inefficienza del Paese o all’inframmettenza di forze occulte, come si è spesso insinuato, ma a oggettive difficoltà. La durezza emergenziale si mescolò a insperate aperture nella percezione, prima confusa poi sempre più chiara che, di fronte a una realtà assai più radicata e diffusa di quanto si fosse inizialmente creduto, la repressione non sarebbe stata sufficiente.

Questo però non vuol dire che in Italia la lotta al terrorismo si sia conciliata con lo Stato di diritto e con il suo rafforzamento. Il carcere e la giustizia dell’emergenza, il ruolo acquisito dalla magistratura e il rapporto alterato tra potere giudiziario e potere politico danno la misura della crisi e non del trionfo della democrazia. È difficile rendersi conto della dinamica degli eventi e del senso delle scelte se non si tiene conto, oltre che delle leggi, di ciò che avvenne in carcere e nel mondo della giustizia, cioè dove quelle leggi si applicarono. La vicenda del 7 aprile fu la prova generale della lotta al terrorismo e delle sue derive. Secondo l’impianto accusatorio dell’allora sostituto procuratore di Padova Pietro Calogero, l’autonomia operaria e i suoi teorici – non escluso Potere operaio – erano parte integrante della strategia terroristica facente capo, in ultimo, alle Brigate rosse: un’ipotesi – quella di un’organizzazione e di una strategie uniche – che si è rivelata priva di fondamento anche sul piano giudiziario, ma che negli ultimi anni è stata in qualche modo riproposta proprio sul piano storiografico. Nell’immediato l’operazione, oltre a produrre arresti a catena, contribuì a polarizzare e a spingere lo scontro su livelli più alti; e la veloce dissoluzione del sottobosco eversivo avvantaggiò sul momento la militanza regolare, facendo della clandestinità una scelta obbligata anche per l’area di Prima linea.

Di qui inizia l’uso estensivo del reato associativo e del concorso morale (tale per cui il singolo è ritenuto responsabile di tutti i reati commessi dalla organizzazione cui appartiene), su cui è stato appiattito qualsiasi antagonismo, si allarga il credito concesso ai pentiti, con tutti i rischi che ne potevano derivare, e che ne derivarono, per le garanzie fondamentali dell’imputato sancite dai codici penali a partire dalla Rivoluzione francese, a cominciare dalla personalità della responsabilità penale e dall’uguaglianza di fronte alla legge al diritto di difesa: perché l’imputato fu costretto all’inversione dell’onere della prova, mentre si diffusero la dilatazione a dismisura della carcerazione preventiva, dovuta ai mandati di cattura a grappolo e alla contestazione di più aggravanti, e l’uso del carcere duro come forma di pressione e di ricatto, quasi come un prolungamento della prassi inquisitoria sposata dalla magistratura. Alla fine del 1979, con quella che diventerà la legge Cossiga, si codificarono il sistema delle aggravanti e l’amplificazione del reato associativo, che battevano la consueta strada dell’inasprimento sanzionatorio e della restrizione dei diritti e delle garanzie, e si aggiunse la possibilità di consistenti sconti di pena per chi accettava di collaborare con la giustizia.



In particolare la legge sui pentiti, che dopo essere stata collaudata dall’antiterrorismo è stata applicata dalla lotta alla mafia, necessitava per sua stessa natura di ampi margini discrezionali per essere applicata e per poter orchestrare il gioco delle promesse e delle minacce cui inevitabilmente si legavano il pentimento e il pentitismo, che si configuravano come commedie o drammi collettivi di ampie dimensioni: vi partecipavano in primo luogo il pubblico ministero o il giudice istruttore, decisivi per indurre alla collaborazione con l’aiuto di esponenti scelti delle forze dell’ordine, e poi il giudice del dibattimento e dei successivi gradi che applicava il sistema delle attenuanti; infine solo l’Amministrazione carceraria poteva garantire un trattamento carcerario e una politica dei trasferimenti tali da non mettere in pericolo la vita dei pentiti; e spesso molti dovevano chiudere un occhio «o anche tutti e due» per arrivare laddove la legge non arrivava.

L’iperbolica imputazione di insurrezione armata contro i poteri dello Stato e guerra civile, di cui nel 1984 furono chiamati a rispondere ben 269 brigatisti e autonomi del 7 aprile, era indicativa degli eccessi e delle contraddizioni – forse inevitabili – della lotta al terrorismo: era una imputazione che faceva la sua comparsa per la prima (e l’ultima) volta nella storia repubblicana, anche se sembrava più che altro strumentale a un rinvio dei nuovi termini della custodia cautelare; e strideva con quanto politici e inquirenti avevano sempre sostenuto sulla tenuta dello Stato e sull’incapacità del terrorismo di coinvolgere grandi masse.

A.I.: Come è finita la guerra?

M.G.: L’esaurirsi della parabola eversiva – ma bisogna ricordare che è stato sconfitto e punito solo il terrorismo di sinistra, mentre le stragi neofasciste sono rimaste senza colpevoli – assume una particolare rilevanza anche perché ha coinciso con il mutamento di scenario nazionale e internazionale che si è verificato a partire dall’inizio degli anni Ottanta. Da una parte l’avvio del processo che nel 1989 avrebbe chiuso la guerra fredda, dall’altra l’affermazione del craxismo e una nuova fase di crescita economica, l’inizio del declino del Pci e le battute finali di una lunga crisi del sistema dei partiti.

La lotta al terrorismo islamico ha riacceso l’interesse storiografico anche per l’uscita dall’emergenza degli anni di piombo, poiché ha spinto a riflettere un po’ ovunque sulla tenuta dello Stato di diritto rifacendosi agli esempi del passato in chiave comparativa. Nonostante la tendenza alle risposte rassicuranti se non proprio assolutorie, volte a dimostrare anche inconsapevolmente la superiorità del modello occidentale, la letteratura internazionale ha suggerito un approccio all’attività dei gruppi armati e alle risposte difensive degli Stati come parti di un unico dramma collettivo cui partecipa, con la politica e la stampa, l’intera società. Si tratta di un tema importante, anche se a lungo trascurato per l’Italia, perché nelle modalità con cui il terrorismo è stato combattuto – disseminate di esitazioni, squilibri e contraddizioni – stanno scritti più e meglio che altrove la natura del fenomeno e il suo impatto sulla storia repubblicana: in sintesi, la profonda lacerazione prodotta degli anni di piombo.

Il terrorismo è stato sconfitto grazie ai primi pentiti, che hanno consentito di penetrare nell’universo eversivo. Tuttavia il pentitismo non fu solo causa, ma anche effetto di un cedimento interno dei gruppi armati, di cui seppero approfittare il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e i magistrati dell’antiterrorismo. La legge sui pentiti non fu però solo uno strumento per combattere il terrorismo, ma anche un abbozzo di soluzione politica, che riconosceva la natura sui generis dei reati eversivi. Di lì a poco il movimento della dissociazione, che attrasse oltre i tre quarti dei militanti carcerati, dette il via a un processo di revisione della scelta armata senza pari in Europa, confermando il terrorismo italiano come un caso unico anche per il modo in cui è stato sconfitto. È questo il motivo per cui protagonisti dell’uscita dall’emergenza, più che le vittime, furono gli ex militanti pentiti e dissociati, che trovarono un interlocutore anche nel variegato mondo cattolico.

È dall’orrore del carcere speciale e più in generale dal dolore patito in prima persona che prese avvio il processo di umanizzazione. L’essenza più profonda del lungo e tormentato viaggio di ritorno alla vita compiuto da molti ex militanti si caratterizzò proprio per l’intreccio indissolubile degli aspetti soggettivi e personali con quelli politici. Mettendo al centro la riscoperta dell’uomo e del suo valore, il dibattito postemergenziale dette voce a un’esigenza più generale, che istituzioni e partiti non sembravano in grado di soddisfare. Con il definitivo superamento della politica come lotta mortale tra amico e nemico, giunta in eredità dalla guerra civile europea, si chiudevano il secolo breve e il lungo dopoguerra italiano.

Dopo la sconfitta del terrorismo si cominciò subito a discutere l’idea di una soluzione politica, che era stata solo in parte soddisfatta dalla legge sui pentiti. Le proporzioni della lacerazione eversiva e le ingiustizie dell’emergenza apparvero subito tali per alcuni da giustificare un atto di clemenza in nome della pace sociale: così era avvenuto dopo altri momenti critici della storia unitaria – sottolineava Giorgio Bocca – dal brigantaggio alla Resistenza contro i nazifascisti. L’ipotesi di una riconciliazione ruotava in sostanza attorno al dilemma se, e con quali modalità, fosse opportuno trasformare in attenuante l’aggravante di terrorismo, cancellando gli eccessi e le ingiustizie prodotti dall’emergenza.

L’amnistia fu subito scartata perché sembrava legittimare il terrorismo come una guerra civile, fornendo ai terroristi il riconoscimento politico che era stato loro negato fino ad allora. Lo scopo era anche smentire che essi fossero stati qualcosa di più dell’esigua minoranza sradicata di cui parlavano in molti; anche se Giorgio Bocca, che la Resistenza l’aveva combattuta, ricordava che i 3000 comunisti combattenti contati nel 1978 erano pari al numero dei partigiani prima della crescita registrata nella primavera del 1944. Secondo altri era inaccettabile l’idea che negli anni Settanta ci fosse stata una guerra civile, categoria che ancora si faceva fatica ad applicare al periodo 1943-45; responsabilità collettiva non significava comunque irresponsabilità penale dei colpevoli. Per i comunisti non era possibile nessuna equiparazione tra lo Stato democratico e i suoi aggressori, né alcun paragone con le lacerazioni prodotte dal nazifascismo e con l’amnistia concessa da Togliatti.

Si arrivò così alla legge sui dissociati, che simbolicamente ebbe un valore rilevante, anche se non soddisfece nessuno, tanto che da allora l’idea di una soluzione politica si è riaffacciata più volte.


A.I.: Che tipologie di lettura esistono da parte dei protagonisti, quali grandi aree interpretative provengono dal mondo della lotta armata su quella stagione?

M.G.: A parlare di guerra civile sono oggi alcuni ex terroristi e autonomi, che vi cercano una forma di attenuante più o meno inconscia, se non di autoassoluzione, anche se il reato di guerra civile (e di insurrezione armata contro i poteri dello Stato), di cui alcuni di loro dovettero rispondere fin dai primi processi, era di fatto un aggravante. Ma anche qualche autorevole rappresentante delle istituzioni di allora, come il democristiano Francesco Cossiga e il comunista Ugo Pecchioli, hanno ammesso a posteriori la matrice ideale e il radicamento sociale della lotta armata, che si sviluppò in un clima per il quale il presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino ha parlato espressamente di guerra civile. Per sottolineare che non si trattò di una guerra civile in senso proprio, la si è definita «a bassa intensità» o «simulata», secondo la definizione di Luigi Manconi: ma forse meglio sarebbe dire «percepita», e cioè non reale, ma comunque decisiva nell’indirizzare i comportamenti di una generazione condizionata dal «colpo di Stato alle porte» e convinta che la rivoluzione fosse imminente. Giuliano Ferrara ha di recente ammesso che si trattò di «guerra, fatta con i mezzi della politica, ma era una guerra civile, senza regole, senza le divise, asimmetrica, come i jihadisti di oggi, la peggiore». «C’era una battaglia per la guida del movimento operaio: il partito armato non era composto da masse sterminate come quelle organizzate da noi, ma era un’avanguardia agguerrita e determinata che condizionava o orientava la vita all’interno della fabbrica meccanizzata e capitalistica: facevano i cortei interni, provocavano la gerarchia con forme democraticamente e intollerabili, sparacchiavano, gambizzavano e ammazzavano».

In genere però perdura la difficoltà a riconoscere la natura politica dei reati commessi dai militanti della lotta armata, cioè in ultimo ad ammettere la profonda lacerazione nella società italiana di cui essa è stata causa ed effetto, antica e nuova al tempo stesso, e a riconoscere la sua origine nella storia della sinistra, ben oltre l’«album di famiglia» di cui ha parlato Rossana Rossanda.

Dopo l’iniziale apertura a ridosso degli avvenimenti, l’impressione è che ora ci sia un irrigidimento: difficile capire da dove sia partito. È una sorta di incomunicabilità che non porta da nessuna parte. La vicenda Battisti è in questo senso emblematica di un giustizialismo funzionale alla lotta politica che si nutre della cancellazione di ogni prospettiva storica: sfido un ragazzo di oggi a capire cosa è successo in questo paese negli anni Settanta-Ottanta basandosi solo su ciò che in quell’occasione hanno scritto i media.


Monica Galfré è professoressa associata di Storia contemporanea presso il Dipartimento Sagas (Storia Archeologia Geografia Arte Spettacolo) dell’Università di Firenze. Si è occupata di storia delle istituzioni scolastiche e dell’editoria nell’Italia contemporanea, con particolare riferimento agli anni del fascismo e della repubblica, e da tempo si interessa di violenza politica di sinistra e lotta armata negli anni Settanta e Ottanta. È autrice di numerosi saggi e dei seguenti volumi: Una riforma alla prova. La scuola media di Gentile e il fascismo(Franco Angeli 2000), Il regime degli editori. Libri, scuola e fascismo (Laterza 2005),La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987 (Laterza 2014), Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento (Carocci 2017) e La guerra è il nostro Vietnam. Il ’68 e l’istruzione secondaria italiana (Viella 2019).

lunedì 9 dicembre 2019

Assad contro l'Europa: "Ha sostenuto il terrorismo"



da ADNKONOS

"Dobbiamo iniziare con una semplice domanda: chi ha creato questo problema? Perché ci sono rifugiati in Europa? È una domanda semplice: a causa del terrorismo sostenuto dall'Europa - e ovviamente dagli Stati Uniti, dalla Turchia e da altri - ma l'Europa è stata il principale attore nella creazione del caos in Siria. Quindi, quello che viene fatto torna indietro". Il presidente siriano, Bashar al Assad, risponde così a una domanda di Monica Maggioni sulla questione migratoria che investe l'Europa e che è riconducibile alla crisi siriana. L'intervista viene trasmessa sui canali social della presidenza siriana.

"In merito all'intervista al Presidente siriano Bashar al Assad", riferisce in una nota viale Mazzini, "realizzata dall'ad di Rai Com, Monica Maggioni, la Rai informa che la renderà disponibile su RaiPlay" da stasera dove resterà come documentazione e trasparenza.

VATICANO - "La lettera del Papa riguardava la sua preoccupazione per i civili in Siria e ho avuto l'impressione che forse il quadro in Vaticano non fosse completo" risponde a una domanda sulla lettera inviata da Papa Francesco a giugno. L'intervista viene trasmessa sui canali social della presidenza siriana. "Questo è prevedibile, dal momento che la narrativa principale in Occidente fa riferimento a questo 'cattivo governo' che uccide la 'brava gente', come si vede e si sente sugli stessi media: ogni proiettile dell'esercito siriano e ogni bomba uccidono solo i civili e" colpiscono "solo ospedali. Non uccidono i terroristi mentre prendono di mira quei civili. Tutto questo non è corretto".

"Ho risposto con una lettera che spiegava al Papa quale fosse la realtà in Siria. Siamo quelli che più di tutti e prima di tutti si preoccupano per la vita dei civili, perché non puoi liberare un'area se la gente è contro di te. Non puoi parlare di liberazione mentre i civili sono contro di te. La parte cruciale nell'operazione militare di liberazione di qualsiasi area è avere il sostegno del pubblico in quell'area o nella regione in generale. Ciò è stato chiaro negli ultimi nove anni e ciò (la violenza contro i civili, ndr) è contrario ai nostri interessi".

"RUSSIA NON SOSTIENE L'INVASIONE TURCA" - "Per comprendere il ruolo della Russia, dobbiamo comprendere i principi della Russia" dice il presidente Assad, rispondendo a una domanda sul ruolo di Mosca dopo l'ingresso della Turchia in Siria. "Per la Russia il diritto internazionale e l'ordine internazionale basato su quel diritto rientra nell'interesse di ciascuno nel mondo. Per cui per loro, sostenendo la Siria stanno sostenendo il diritto internazionale. Questo è un punto. Poi, essere conto i terroristi rientra nell'interesse del popolo russo e del resto del mondo". "Quindi, stare con la Turchia e fare questo compromesso non significa sostenere l'invasione turca. Non stanno sostenendo i turchi, non dicono "questa è una buona realtà, la accettiamo e la Siria deve accettarla". No, non lo fanno. Ma a causa del ruolo negativo degli americani e del ruolo negativo degli occidentali riguardo la Turchia e i curdi i russi sono entrati, per bilanciare quel ruolo per rendere la situazione ...non voglio dire migliore ma meno peggiore. Quindi adesso questo è il loro ruolo. In futuro, la loro posizione sarà molto chiara: l'integrità e la sovranità siriana sono in contraddizione con l'invasione questo è ovvio e chiaro". Per Assad "neanche i russi hanno fatto un compromesso relativo alla sovranità. No, fanno i conti con la realtà. Ora c'è una brutta realtà...bisogna coinvolgersi per fare qualche...non voglio dire compromesso perché non si tratta di una soluzione definitiva. Potrebbe essere un compromesso relativo ad una situazione a breve termine ma nel medio o lungo termine la Turchia deve andarsene. Non si discute su questo".

ARMI CHIMICHE - "Abbiamo sempre detto che non abbiamo usato" armi chimiche. "Non possiamo usarle, è impossibile che vengano usate nella nostra situazione per motivi, diciamo logistici". "Una ragione, molto semplice -aggiunge Assad-: quando stai avanzando, perché dovresti usare armi chimiche? Stiamo avanzando, che bisogno abbiamo? Siamo in ottima posizione, perché usarle, specialmente nel 2018. Questo è un motivo".

IRAN - "Quando c'è caos, è negativo per tutti. Ci sono effetti collaterali e ripercussioni, soprattutto se ci sono interferenze esterne" dice il presidente siriano, Bashar al Assad, rispondendo a una domanda sulla situazione in Medio Oriente e in particolare sul quadro attuale dell'Iran. "Se" il fenomeno "è spontaneo, se si parla di dimostrazioni e di persone che chiedono riforme o una migliore situazione economica o altri diritti, è positivo. Ma quando si tratta di atti di vandalismo, distruzione, omicidi e interferenze da parte di poteri esterni, allora no: è totalmente negativo, è esclusivamente negativo ed è un pericolo per tutti in questa regione".

LIBANO - Il presidente al Assad si dice preoccupato per il Libano, ma se le manifestazioni sono volte ad ottenere riforme, sarà una buona cosa per il Paese. "Naturalmente, il Libano può influire sulla Siria più di ogni altro paese perché si tratta del nostro diretto vicino. Ma ancora una volta se si tratta di una cosa spontanea, e si tratta di fare riforme e di liberarsi di un sistema politico settario, sarà una cosa buona per il Libano. Dipende dalla consapevolezza del popolo libanese in modo da non consentire a nessuno dall'esterno di cercare di manipolare il movimento spontaneo o le dimostrazioni in Libano".

ERDOGAN - "Non sarei orgoglioso se un giorno dovessi farlo - dice rispondendo a una domanda di Monica Maggioni sull'ipotesi di dialogare con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan - . Sarei disgustato se dovessi aver a che fare con islamisti opportunisti. Non musulmani, islamisti: è un'altra parola, è un termine politico". "Io dico sempre: il mio lavoro non prevede che io sia felice per quello che faccio o che non sia felice. Non si tratta dei miei sentimenti, si tratta degli interessi della Siria. Andrò ovunque mi portino i nostri interessi", conclude.

Dal 1945 ad oggi gli Usa sono stati responsabili di 20-30 milioni di morti



Di Manlio Dinucci da glindifferenti
 

Nel riassunto del suo ultimo documento strategico – 2018 National Defense Strategy of the United States of America (il cui testo integrale è segretato) – il Pentagono sostiene che «dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati uniti e i loro alleati hanno instaurato un ordine internazionale libero e aperto per salvaguardare la libertà e i popoli dalla aggressione e coercizione», ma che «tale ordine viene ora minato dall’interno da Russia e Cina, le quali violano i principi e le regole dei rapporti internazionali».

Completo ribaltamento della realtà storica. Il prof. Michel Chossudovsky, direttore del Centre for Research on Globalization, ricorda che questi due paesi, classificati oggi come nemici, sono quelli che, quando erano alleati degli Stati uniti durante la Seconda guerra mondiale, pagarono la vittoria sull’Asse nazi-fascista Berlino-Roma-Tokyo con il più alto prezzo in vite umane: circa 26 milioni l’Unione Sovietica e 20 milioni la Cina, in confronto a poco più di 400 mila degli Stati uniti.

Con questa premessa Chossudovsky introduce su Global Research un documentato studio di James A. Lucas sul numero di persone uccise dalla ininterrotta serie di guerre, colpi di stato e altre operazioni sovversive effettuata dagli Stati uniti dalla fine della guerra nel 1945 ad oggi: esso viene stimato in 20-30 milioni. Circa il doppio dei caduti della Prima guerra mondiale, di cui si è appena celebrato a Parigi il centenario della fine con un «Forum della pace».

Oltre ai morti ci sono i feriti, che spesso restano menomati: alcuni esperti calcolano che, per ogni persona morta in guerra, altre 10 restino ferite. Ciò significa che i feriti provocati dalle guerre Usa ammontano a centinaia di milioni.

A quello stimato nello studio si aggiunge un numero inquantificato di morti, probabilmente centinaia di milioni, provocati dal 1945 ad oggi dagli effetti indiretti delle guerre: carestie, epidemie, migrazioni forzate, schiavismo e sfruttamento, danni ambientali, sottrazione di risorse ai bisogni vitali per coprire le spese militari.

Lo studio documenta le guerre e i colpi di stato effettuati dagli Stati uniti in oltre 30 paesi asiatici, africani, europei e latino-americani. Esso rivela che le forze militari Usa sono direttamente responsabili di 10-15 milioni di morti, provocati dalle maggiori guerre: quelle di Corea e del Vietnam e le due contro l’Iraq. Altri 10-14 milioni di morti sono stati provocati dalle guerre per procura condotte da forze alleate armate, addestrate e comandate dagli Usa, in Afghanistan, Angola, Congo, Sudan, Guatemala e altri paesi.

La guerra del Vietnam, estesasi a Cambogia e Laos, provocò un numero di morti stimato in 7,8 milioni (più un enorme numero di feriti e danni genetici generazionali dovuti alla diossina sparsa dagli aerei Usa).

La guerra per procura negli anni Ottanta in Afghanistan fu organizzata dalla Cia che addestrò e armò, con la collaborazione di Osama bin Laden e del Pakistan, oltre 100 mila mujaidin per combattere le truppe sovietiche cadute nella «trappola afghana» (come dopo la definì Zbigniew Brzezinski, precisando che l’addestramento dei mujaidin era iniziato nel luglio 1979, cinque mesi prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan).

Il colpo di stato più sanguinoso fu organizzato nel 1965 in Indonesia dalla Cia: essa fornì agli squadroni della morte indonesiani la lista dei primi 5 mila comunisti e altri da uccidere. Il numero dei trucidati viene stimato tra mezzo milione e 3 milioni.

Questo è «l’ordine internazionale libero e aperto» che gli Stati uniti, indipendentemente da chi siede alla Casa Bianca, perseguono per «salvaguardare i popoli dalla aggressione e coercizione».

Il Manifesto, 20 novembre 2018

domenica 8 dicembre 2019

I cugini maleducati

di Andrea Zhok
 
Su giornali e telegiornali si succedono compunte disapprovazioni rispetto alle proteste che paralizzano da tre giorni la Francia.
Gli inviati a Parigi (meravigliosi quelli di Sky) si affrettano a spiegare come si tratti di una riforma che vuole "armonizzare" il sistema, una riforma che vuole "universalizzare" i trattamenti pensionistici, che insomma ora sono così complicati - signora mia - che davvero non ci si raccapezza.

E naturalmente si usa l'usuale strumentario argomentativo, già ben lubrificato dall'uso in patria:
"Si tratta di equità intergenerazionale: bisogna impedire che tutte queste risorse vadano indirizzate verso gli anziani." (E infatti le riforme pensionistiche in tutti i paesi in cui sono già avvenute hanno notoriamente consentito la creazione di un mondo di brillanti opportunità per i giovani.)
"E poi si tratta di equità tra gruppi sociali: basta con gli squilibri tra lavoratori tutelati e non tutelati!"
(E la soluzione 'armonizzante', 'universalizzante', sta naturalmente nel togliere le tutele a quelli che ancora ce l'hanno, mai il contrario.)

E poi ancora:
"Ma insomma cosa vogliono questi francesi? Quanto sono viziati! Altri paesi hanno già un'età pensionistica superiore!"
(E perciò continuiamo la gaia corsa al massimo ribasso delle condizioni di lavoro. Così presto finirà il giro, e saremo di nuovo noi quelli 'comparativamente privilegiati', da spremere un po' di più.)

La triste verità è che gli attuali scioperi in Francia, con tre giorni di blocco del paese, sono semplicemente una dimostrazione a prova di bomba che siamo un popolo di boccaloni.
In Italia infatti ci siamo bevuti (e ci continuiamo a bere) come acqua fresca sotto il sole d'agosto tutte le storie che ci vengono ammannite per spiegare un principio saldissimo, assai raccomandabile e moralmente inattaccabile: <>.
Questo è il contenuto di fondo, il minimo comune denominatore, di tutte le comunicazioni politiche dell'ultimo ventennio almeno.
Rispetto a questo nocciolo duro, variano poi i mille modi in cui ci viene spiegato che è giusto così. E' giusto così perché siamo colpevoli, improduttivi, evasori, pigri, corrotti, indebitati, ignoranti, sessisti e, diciamolo, puzziamo pure un pochino.
E dunque è giusto che le condizioni del lavoro siano erose, le pensioni diventino un miraggio, la sicurezza sul lavoro sia un optional, i salari vengano compressi. E' tutto giusto, perché siamo colpevoli.
Invece quegli arroganti dei cugini d'oltralpe non hanno ancora capito bene quanto siano colpevoli pure loro, quanto sia giusto, morale, praticamente santo che vengano spremuti e buttati ad maiorem gloriam del capitale.
Noi invece, noi che c'abbiamo l'occhio lungo, noi che non ci facciamo illusioni, noi che sappiamo di essere peccatori, noi stiamo buoni e votiamo gente che ci fa stare buoni (che sennò facciamo brutta figura in Europa.)
Noi non protestiamo.
Noi aspettiamo che quelli che pensano al nostro bene in luoghi lontani e favolosi, come Bruxelles e Francoforte, ci buttino un osso.

Mentre quegli screanzati dei cugini francesi manifestano contro i tagli alle pensioni, la nostra 'migliore gioventù' manifesta per ringraziare la Politica con la P maiuscola, per avercele tagliate.
Davvero, questa plebaglia francese non ha davvero capito nulla.
Fortunati noi, che abbiamo solo l'imbarazzo della scelta su chi mandargli a spiegare quanto siano in errore.

venerdì 6 dicembre 2019

Il problema è l'euro non il MES

di Thomas Fazi
 
Tutto il dibattito sul MES è surreale. A voler dar retta ai due principali schieramenti - i proconsoli europei del PD da un lato e i sovran-confusi ed altreuropeisti di Lega-FdI dall'altro - il destino dell'Italia si giocherebbe intorno al MES: a seconda dei punti di vista, l'Italia sarebbe spacciata in caso di non approvazione (i primi) o di approvazione (i secondi) del trattato in questione.
Ora, sulla posizione del PD c'è poco da dire: da bravi proconsoli, si limitano a ripetere a pappagallo le direttive che arrivano da Bruxelles. Che altro dovrebbero fare? A volerla dire tutta, c'è anche un fondo di verità in quello che dicono: non è da escludere, infatti, che la mancata ratifica del MES possa creare turbolenze sui mercati finanziari.
Più ipocrita, invece, la posizione dei sovran-confusi della Lega e affini: se da un lato, infatti, è indubbio che l'approvazione del MES peggiorerebbe la situazione dell'Italia (aumentando il rischio di una ristrutturazione forzata del debito), è però altrettanto indubbio che la situazione dell'Italia rimarrebbe assolutamente critica anche se la riforma del MES venisse cestinata domani (cosa che comunque non accadrà).
Ciò che Lega e FdI non dicono, infatti, è che in caso di rischio di insolvenza sul debito pubblico - un'eventualità a sua volta resa possibile unicamente dall'assenza di un'esplicita e incondizionata garanzia del debito da parte della BCE - già oggi l'Italia sarebbe costretta a chiedere alla BCE l'attivazione di un cosiddetto programma OMT (Outright Monetary Transactions), che già oggi richiederebbe l'accettazione, da parte dell'Italia, di un programma di aggiustamento dei conti pubblici all'interno della cornice... del MES. Insomma, riforma o non riforma del MES, in caso di crisi l'Italia verrebbe comunque commissariata.
Cosa ci fa capire questo? Che il problema non è la riforma del MES ma l'architettura stessa dell'eurozona. E che, dunque, chi vorrebbe farci credere che il destino dell'Italia dipende dall'approvazione o meno della riforma sta continuando a prendere per i fondelli gli italiani.
Più in generale, la riforma del MES rappresenta la normale evoluzione dell'architettura dell'eurozona: pensare che l'Italia possa tirarsene fuori od ottenere chissà quali modifiche è semplicemente ridicolo. Questa è la direzione in cui va l'eurozona, l'unica direzione possibile: sarebbe anche il momento che l'Italia decidesse, una volta per tutte, cosa fare da grande, se stare dentro o fuori.
L'ultima cosa di cui ha bisogno questo martoriato paese sono dei sedicenti sovranisti che continuano a raccontare al carcerato che il problema è la grandezza delle finestre della sua cella, e non il fatto stesso di trovarsi in una cella senza motivo.

Prospettive

di Andrea Zhok
 
Di fronte alla prospettiva di un possibile default italiano, indotto dal combinato disposto delle modifiche del MES, c'è chi si chiede se i paesi che guidano questa riforma (Germania e Francia) non siano consapevoli che un default italiano sarebbe una catastrofe che porterebbe con sé anche i sistemi bancari altrui.
Su questo punto però c'è un equivoco che bisogna sfatare. Si trova spesso come argomento consolatorio l'idea che l'Italia è 'too big to fail'. E questo è tecnicamente vero. Nessuno infatti ha interesse a vedere un default incontrollato dell'Italia, che metterebbe in crisi con effetto domino tutti i sistemi finanziari connessi.
Però la minaccia di un default unilaterale e senza paracadute sarebbe una minaccia effettiva solo se gestita autonomamente dall'Italia in una trattativa, alle proprie condizioni (e, naturalmente, se a gestirla ci fossero persone tecnicamente e diplomaticamente assai capaci, il che rende al momento questa trattativa del tutto implausibile).

Non è questa la prospettiva, e la riforma del MES indica già proprio le condizioni che si prevedono come desiderabili a livello UE per un 'default controllato'.
La prospettiva che viene presa in considerazione come scenario desiderabile è quella in cui si procede ad alcuni 'haircut' circoscritti sui titoli del debito pubblico, sottoponendo simultaneamente il paese a rigide condizionalità.
Queste condizionalità devono indurre il paese che vi è soggetto a privatizzare tutto il patrimonio pubblico che c'è ancora da privatizzare, e a svendere le parti più interessanti del patrimonio privato connesso alla produzione (banche innanzitutto).
Gruppi come Leonardo-Finmeccanica, e le maggiori banche italiane sarebbero i primi a cadere, seguiti dalla delega dello sfruttamento estensivo del patrimonio ambientale e culturale.
Nel caso qualche anima bella ritenga che questa prospettiva sia troppo maligna, che i 'fratelli tedeschi e francesi' mai sarebbero così inclementi, ricordo che questo è esattamente quanto è successo, su scala minore, con la Grecia. (Solo che lì hanno imparato strada facendo, mentre ora la riforma del MES vuole disporre tutto in modo regolamentato a monte.)
In Grecia non c'è stato alcun default incontrollato (che avrebbe effettivamente coinvolto istituti bancari francesi e tedeschi). Si è invece proceduto a uno 'haircut' controllato e dilazionato, con allungamento dei tempi di restituzione dei prestiti, ed erogazioni centellinate quanto bastava per consentire al paese di 'mantenere i propri impegni', cioè di continuare nelle interazioni economiche più proficue con l'estero.
Ma tutto ciò avveniva sotto rigorosissime condizionalità, che hanno ristretto il settore pubblico greco ai minimi termini, e che hanno costretto a privatizzare tutti gli asset maggiormente produttivi, come il sistema aeroportuale e il porto del Pireo, oggi gestiti da compagnie straniere.

Il simpatico effetto collaterale di questa strategia è che oggi anche quando il Pil greco nominalmente cresce (e sui nostri giornali ci spiegano che la Grecia è 'uscita dal tunnel'), comunque la maggior parte dei ricavi sono immediatamente veicolati su banche estere, ai gestori, contribuendo in maniera irrisoria a un miglioramento delle condizioni di vita dei Greci.
Il modello che abbiamo di fronte non è dunque quello del 'crollo', ma quello del saccheggio legalizzato, alla fine del quale resta il simulacro di una nazione, con la sua bandieretta e l'inno, ma di fatto ridotta ad un protettorato economico privo di ogni margine di reale indipendenza.

sabato 30 novembre 2019

La sinistra e l’economia: da Sraffa e Keynes alla riforma del MES

Alba Vastano intervista Sergio Cesaratto da sinistrainrete.info

Incubo o Lincubo Johann Heinrich Füssli 1“Ora si rischia di allarmare nuovamente i mercati. Le banche italiane e straniere ci penserebbero due volte ad acquistare titoli di un Paese che potrebbe essere assoggettato a ristrutturazione del debito. Di qui i timori del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, di Patuelli e dell’on. Giampaolo Galli e di tanti altri. Una ristrutturazione del debito colpirebbe duramente le banche e i risparmiatori. Ѐ una strategia folle” (Sergio Cesaratto)
Un mese e la riforma del MES, il fondo salva Stati, verrà attuata. Vorremmo così non fosse, ma ci sono tutti i presupposti che lasciano pensare ad un amarissimo dono di Natale che l’Europa sta per propinarci. Per comprendere i meccanismi della riforma e le conseguenze che piomberanno come una mannaia sull’economia italiana, già compromessa da un enorme debito, ne parliamo con Sergio Cesaratto, fra i più noti economisti critici internazionali. Tanto umile ed empatico nel privato, quanto serio e rigoroso nella professione. A lui, all’economista eterodosso, appellativo con cui ama definirsi, alla sua militanza universitaria, al suo sentirsi uomo di sinistra, pur criticandone le inadempienze, rivolgo le domande seguenti in questa lunga intervista. Concludendo con quelle più ‘mordaci’, sapendo che chi risponde, lo fa mantenendo la modestia e l’allure elegante del valente professionista. Grazie professor Cesaratto.
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Professor Cesaratto, entriamo subito nel vivo, ovvero l’attuale questione del MES , il fondo salva Stati. Anzitutto, per i profani in materia di economia, può spiegare cos’è il MES e come funziona questo meccanismo applicato all’economia europea?
Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), detto anche fondo salva-Stati, fu creato nel 2011. Interviene a finanziare uno Stato quando per quest’ultimo non ha più senso finanziarsi sui mercati a causa di tassi di interesse troppo alti. Semplificando, quando i sottoscrittori del debito pubblico non rinnovano i prestiti, non trovando altri acquirenti a tassi ragionevoli, il Paese non può restituire i prestiti in scadenza ed è in default.
Il MES interverrebbe prestando quattrini al Paese, probabilmente in combinazione con la BCE che a sua volta comprerebbe titoli di Stato sotto il cappello dell’OMT (Outright Monetary Transactions), il programma annunciato da Draghi nel luglio 2012 nel famoso discorso in cui disse che la BCE avrebbe fatto tutto quanto necessario (“whatever it takes”) per preservare l’euro. L’aiuto di Draghi era subordinato a prestiti MES, e questi ultimi a un “memorandum of understanding”, un impegno del Paese a perseguire politiche di aggiustamento fiscale (leggi: austerità). Il MES ha un capitale fornito dai Paesi dell’eurozona (80 miliardi), e in caso di prestiti si può finanziare emettendo titoli.

La riforma del Mes dovrebbe avvenire entro fine anno. Nel sistema economico italiano sale la preoccupazione per questa riforma. Se, come prevedibile, verrà attuata,come prima risposta le banche italiane smetterebbero di acquistare titoli nazionali?
Il presidente dell’Associazione bancaria italiana (ABI) Patuelli ha detto di sì.

Per quale ragione?
Nel nuovo-MES si allude alla “ristrutturazione del debito” nel caso lo staff del MES non reputi il debito di quel Paese sostenibile. Ristrutturazione significa che i detentori dei titoli di Stato potrebbero vederne allungate le scadenze, o abbassato il rendimento, o infine addirittura vedere tagliato parte del loro credito (haircut).

Se si arrivasse a questo, quali saranno le conseguenze più pesanti sull’economia nazionale?
Tutti ricordano cosa accadde quando Merkel e Sarkozy, nell’autunno 2010 annunciarono che da quel momento i prestatori agli Stati in default avrebbero subito perdite – tanto nel maggio le banche tedesche e francesi che avevano prestato quattrini alla Grecia erano state già messe in sicurezza (anche coi nostri soldi) quindi al riparo da un haircut. Secondo molti osservatori, fu proprio questo annuncio a innescare la crisi di sfiducia verso i titoli italiani e spagnoli, ciò che ci costrinse all’emissioni di titoli a tassi esorbitanti, che ancora paghiamo. Ora si rischia di allarmare nuovamente i mercati. Le banche italiane e straniere ci penserebbero due volte ad acquistare titoli di un Paese che potrebbe essere assoggettato a ristrutturazione del debito. Di qui i timori del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, di Patuelli e dell’on. Giampaolo Galli e di tanti altri. Una ristrutturazione del debito colpirebbe duramente le banche e i risparmiatori. E’ una strategia folle.

Ma qual è il giudizio politico?
Da tempo la Germania vuole sottrarre il giudizio sul rispetto delle regole fiscali alla giurisdizione della Commissione, essendo quest’ultima troppo sensibile agli equilibri politici (per esempio, non giudicando troppo severamente governi italiani considerati “amici”). Al MES verrebbero attribuito poteri molto forti. Sotto mentite spoglie è il Fondo monetario europeo desiderato da tempo dalla Germania. Insomma l’Europa, invece di trasmettere fiducia sui conti pubblici aiutando i Paesi a sostenerli attraverso bassi tassi di interesse, diffonde inquietudine e rischia di spingerli nel baratro. È una strategia che mira a mettere i Paesi ad alto debito alle corde per costringerli a “risanare” a colpi di austerità. Sappiamo benissimo quanto tale “risanamento” sia controproducente. Ma c’è in Europa, e specialmente in Germania ed Olanda, chi pensa che il mancato risanamento sia frutto della poca severità verso i Paesi debitori.

I filo-europeisti governativi hanno però negato che nel nuovo Trattato si parli di “ristrutturazione del debito”.
In una sorta di preambolo al Trattato si dice: “(12B) in circostanze eccezionali una forma adeguata e proporzionata di coinvolgimento dei privati, in linea con le pratiche del Fondo Monetario Internazionale, verrà presa in considerazione nei casi in cui il sostegno alla stabilità [del debito] è concesso accompagnato da condizionalità nella forma di programmi di aggiustamento macroeconomico”). Per coinvolgimento del settore privato (Private sector involvement) si intende ristrutturazione del debito. Quest’ultimo non è automatico, questo va riconosciuto, ma è fra le opzioni possibili. Nell’articolato poi il punto non viene ripreso, ma nell’Annesso III dove si specificano le condizioni di accesso agli aiuti si menziona la clausola della sostenibilità del debito (senza entrare nei dettagli).

Pierre Moscovici, al termine del suo mandato come responsabile dell’economia in Ue, manda due messaggi importanti all’Italia. Se la riforma si blocca salta il sostegno alle banche. La frontiera è l’euro e il sovranismo deve arretrare. Che ne pensa?
Il nuovo-MES contempla la possibilità per questa agenzia europea di fungere da garanzia di ultima istanza nel caso di ristrutturazione delle banche europee. Ma ad essere nei guai sono soprattutto le banche tedesche, e il messaggio è a Berlino che dovrebbe essere indirizzato. C’è in verità una seconda discussione in corso e che riguarda l’assicurazione europea sui depositi bancari sotto i 100 mila euro. Questi sono oggi assicurati a livello nazionale, ma una vera sicurezza può solo provenire da una assicurazione europea (come negli Stati Uniti). L’Italia sta bloccando un accordo in questa direzione in quanto la Germania la subordina a un’altra misura destabilizzante per il nostro debito pubblico, ovvero che le banche italiane si liberino di buona parte dei 400 miliardi di titoli di Stato che hanno in pancia. Anche in questo caso l’Europa proibisce e non costruisce, come si è espresso il governatore Visco a proposito del MES. Circa euro e sovranismo, beh forse il quesito lo dovrei porre io a lei! Sarebbe bene che la sinistra si chiarisse le idee sull’Europa decidendo se davvero la considera la nuova frontiera dell’internazionalismo, oppure se intende privilegiare i problemi delle nostre masse popolari. Per gente come Moscovici l’Europa è la frontiera del liberismo, e la rivendicazione di spazi nazionali ne è la negazione. La sinistra italiana da che parte sta?

Philip Lane, economista Bce, afferma “ l’economia cresce meno velocemente di quanto sperassimo”. Assicurando però che nell’Eurozona non sono previste recessioni Lei come vede e prevede la situazione odierna e per il 2020?
La fase di rallentamento dell’economia mondiale sta già aggravando le nostre prospettive, e l’Europa a guida tedesca non sta facendo nulla per prepararsi. Con la fine del mandato di Draghi non c’è più la certezza di una guida adeguata alla BCE – Christine Lagarde ha dichiarato una continuità, ma chissà! La Germania prosegue sul cammino del rigore fiscale per sé e per gli altri. Una politica industriale europea non c’è (se non accordi franco-tedeschi che lasciano da parte gli altri). Se a questo aggiungiamo il disastro della nostra classe politica, inclusa l’assenza di una sinistra all’altezza dei problemi del nostro paese, le prospettive sono preoccupanti.

In questa ottica le scelte dei governi dovranno puntare alla flessibilità sul deficit o maggiormente a riforme strutturali ?
Riforme strutturali significa più laissez-faire. Non siamo più ai tempi del PCI quando aveva un altro significato. Flessibilità fiscale significa poco per l’Italia (a parte gli “zero virgola”) in quanto la leva fiscale dovrebbe essere impiegata in primo luogo dai Paesi che hanno spazio per espandere la spesa pubblica, Germania in primis – che ha conti in ordine non tanto per proprie virtù, ma per le disgrazie altrui per cui gli investitori si sono buttati sui titoli di Stato tedeschi sicché Berlino paga da anni tassi negativi. Un’espansione fiscale in un Paese solo è impossibile, non tanto per i parametri di Maastricht, ma soprattutto perché i mercati ci farebbero a pezzi. In ambito europeo, se Germania che espandesse, se la BCE che continuasse nella politica di acquisto dei titoli pubblici e, soprattutto, se si adottassero forme di europeizzazione del debito, uno spazio fiscale si aprirebbe anche per noi. Se, se , se…

Professore, un’ultima domanda sulla riforma del Mes. Per quali motivi si dovrebbero accettare ipotetici strumenti di sostegno che in realtà sembrano penalizzare ancor di più le economie degli Stati. Lo Stato spende per gli interessi del debito il doppio di quanto spende per investimenti pubblici. Il Mes non sembra essere un meccanismo che facilita il rientro del debito, ma al contrario questi strumenti di assistenza finanziaria potrebbero facilitare invece una nuova crisi del debito.
L’abbiamo detto: l’Europa, invece di trasmettere fiducia sui conti pubblici aiutando i Paesi attraverso bassi tassi di interesse, diffonde inquietudine e rischia di spingerci nel baratro. È una strategia che mira a mettere i Paesi ad alto debito alle corde per costringerli a “risanare” a colpi di austerità. Sappiamo benissimo come tale “risanamento” sia controproducente. Ma c’è in Europa, e specialmente in Germania, chi pensa che il mancato risanamento sia frutto della poca severità verso i Paesi debitori.
Nel caso di un’effettiva ristrutturazione del debito, questo colpirebbe le banche, in particolare quelle italiane che sono forti detentrici di nostri titoli di Stato. Cosa accadrebbe nel caso di una ristrutturazione del debito italiano? Interverrebbe lo stesso nuovo-MES dotato ora di potere diretto di prestare quattrini alle banche? Ma che pasticcio è?
Il debito pubblico italiano sarebbe perfettamente sostenibile con bassi tassi di interesse e una politica fiscale europea che sostenesse la crescita. Come ha proposto il prof. Paolo Savona, il MES dovrebbe essere utilizzato per “europeizzare” una parte del debito pubblico dei paesi europei. Il MES lo potrebbe fare emettendo titoli a tassi bassissimi (dato che ha una garanzia europea) e finanziando così l’acquisto di titoli di Stato Europei. I titoli emessi dal MES costituirebbero quel safe asset, quel titolo europeo ritenuto sicuro, molto gradito agli investitori internazionali e alle banche europee. Invece di riformare la propria assurda costituzione economica, l’Europa ne accentua invece i tratti più oppressivi. Il governo italiano farebbe bene a non firmare per il nuovo-MES, chiedendo un periodo di riflessione su tutto l’impianto economico dell’Eurozona. A proposito: chi lo spiega alle “sardine”?

Passiamo alla sua ultima opera, di cui è disponibile da pochi giorni la seconda edizione. Parliamo di “Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne)” (Diarkos). Perché leggerlo?
La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un ottimo riscontro (e la nuova edizione è già in ristampa mentre le edizioni in spagnolo ed inglese sono in preparazione, quest’ultima col colosso Springer) perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese dello scorso secolo, e quella “marginalista” (o “neoclassica”) che domina il pensiero economico dalla fine del XIX° secolo. Tale dominio è stato in taluni periodi indebolito dalla critica Keynesiana, ma anche da quella del grande economista italiano Piero Sraffa (1898-1983) che ha riscoperto la visione degli economisti classici. La figura di Sraffa è ignota alla maggioranza degli italiani, persino a quelli colti. Eppure è una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi come Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa, personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più ristretto a Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa controversia che negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo scosse le fondamenta della teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i gravi errori concettuali del marginalismo che lo rendono una teoria analiticamente sbagliata. La controversia è nota come la “controversia fra le due Cambridge”, quella inglese e quella americana (sede del celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti della Cambridge inglese erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo Garegnani (1930-2011) e Luigi Pasinetti. Garegnani fu l’allievo prediletto di Sraffa ed è stato il mio maestro. A lui devo la chiarezza concettuale delle Sei lezioni che credo sia ciò che ha colpito di più i lettori.
Semplificando molto, la teoria classica aveva al suo centro il concetto di sovrappiù sociale. Questo è definito come ciò che rimane del prodotto sociale una volta tolte le sussistenze per i lavoratori. Questo semplice concetto ci dà la chiave per ricostruire il funzionamento delle diverse “formazioni economiche” pre-capitalistiche, dall’economia neolitica alle civiltà antiche e successivamente al feudalesimo. A seconda delle diverse condizioni geografiche e storico-istituzionali diverse sono infatti state le modalità con cui le classi dominanti si sono appropriate de sovrappiù sociale. Non è un caso che tale concetto sia ampiamente utilizzato negli studi archeologici delle civiltà antiche e nell’antropologia.
La teoria economica marginalista ha invece al suo centro l’idea che il laissez faire conduca a una distribuzione del reddito fra i “fattori produttivi” (come lavoro, capitale e terra) in cui ciascuno ottiene una fetta di torta commisurata all’apporto di quel fattore alla produzione sociale. A ciascuno il suo, insomma. Il punto è che, come Sraffa dimostra, nella dimostrazione analitica di tali conclusioni essa compie gravi errori che ne inficiano i risultati. In aggiunta, Keynes dimostra come non sia vero come preteso da questa teoria che tutto ciò che si produce è venduto, ma che il capitalismo soffre di carenza di domanda aggregata. Tale carenza è da porsi in relazione proprio con la diseguale distribuzione del reddito che caratterizza anche il capitalismo. Chi ha i denti non ha il pane… come si usa dire.
L’economia è alla portata di tutti, con un po’ di sforzo. Purtroppo anche a sinistra prevale la pigrizia mentale. Altri temi che si prestano a più facili passioni prevalgono nel sentire comune. Basti guardare al fenomeno delle “sardine” dove prevale il generico, o addirittura si fa di quella europea la propria bandiera. Dunque si sventola uno dei simboli del liberismo. Oppure si guardi a Pancho Pardi, il nonno delle “sardine”, che in una trasmissione Rai a cui partecipavo ha detto che lui di economia non capisce nulla. Ma allora come ha fatto a fare politica? Questi sono i nostri leader e leaderini? Beh, le “Sei lezioni” sono state scritte anche per voi, soprattutto per voi. Ma c’è da mettere assieme Vangelo e Gramsci: serve la buona volontà.

Lei sostiene, nella prefazione del saggio, che la crisi europea e le motivazioni, che descrive ampliamente, hanno stimolato l’interesse di molti giovani che si sono avvicinati alle teorie economiche per capirne le ragioni. Sostiene anche che c’è stata una riscoperta di massa del pensiero di Keynes, di cui lei sembra essere grande fautore. E’ così?
Sì, moltissima gente, giovani in particolare, si sono avvicinati all’economia per capire ciò che stava accadendo. Ma le “Sei lezioni” hanno aperto la mente anche a tanti giovani che studiano economia in università dove il pluralismo delle idee è scomparso. Dopo i capitoli più “teorici” dedicati, rispettivamente, ai classici e Marx, ai marginalisti e a Keynes, il libro scivola verso i problemi della politica economica per arrivare a spiegare la crisi europea e, soprattutto, i misteri della politica monetaria (nella nuova edizione ho aggiornato l’esposizione e corretto qualche errore). Prevale naturalmente un pessimismo circa la riformabilità dell’Europa. Un pessimismo motivato, naturalmente, e con il quale non mi risulta che la sinistra abbia fatto i conti sino in fondo. (A mitigare il pessimismo, il libro cerca di essere anche divertente, e anche questo è stato apprezzato).

Lei vede quindi il pensiero e le teorie keynesiane più utili e applicabili di quelle marxiste, ad esempio riguardo la legge basata sul valore/lavoro che lei considera sbagliata?
Assolutamente no. Nel libro più che Keynes è centrale la teoria del sovrappiù che Marx riprende dagli economisti classici. La teoria del valore-lavoro è una particolare formulazione della teoria del sovrappiù che Ricardo e poi Marx adottarono per affrontare alcuni problemi analitici ben spiegati nel libro. Purtroppo entrambi si avvidero che tale soluzione non funzionava. Marx si indirizzò lungo un percorso che poi Sraffa, in grande misura autonomamente, portò a compimento. La teoria di Keynes è complementare a quella del sovrappiù. Essa va però liberata dai retaggi marginalisti, e anche qui l’opera di Sraffa-Garegnani ci è essenziale. Nella nuova edizione ne parlo con un po’ più di dettaglio.
In quanto a Keynes, è un personaggio che non è mai stato troppo popolare in Italia, tanto meno a sinistra. Il PCI non è mai stato né Keynesiano, né Sraffiano. Ma sul PCI e l’economia credo abbia detto già tutto Leonardo Paggi (I comunisti italiani e il riformismo, Einaudi 1986, scritto con M. D’Angelillo). Lo considero una bibbia. Anche da una seria riflessione sugli errori economici del PCI si dovrebbe ripartire (errori che sono poi errori politici di fondo).

Concluderei con una domanda che le può risultare provocatoria, ma utile a capire una definita posizione che ha preso il suo collega Bagnai, addirittura nelle fila della Lega. Posizione che più sovranista non si può. Lei scrive che “la sinistra se l’è lasciato sfuggire”. A cosa è dovuto questo suo ‘j’accuse’ verso la sinistra radicale che già è in sofferenza di suo. Non le sembra un tantino ingenerosa questa sua affermazione?
La sinistra radicale è in crisi precisamente perché si lascia sfuggire economisti dello spessore di Alberto Bagnai. Non sembra che, peraltro, presti grande ascolto a voci ben ferme a sinistra come Antonella Stirati, Massimo D’Antoni, Vladimiro Giacché o Sergio Cesaratto, si parva licet. Naturalmente la crisi della sinistra ha radici profondissime che io vedo nel fallimento del socialismo reale e nel conseguente scatenamento del capitalismo globale. Quest’ultimo ha comportato sia il decentramento del capitale in zone periferiche, ma anche l’incremento dei flussi migratori. Questi fenomeni hanno comportato un enorme allargamento dell’esercito industriale di riserva a livello globale che ha annichilito la forza contrattuale del movimento operaio. La socialdemocrazia, a sua volta, non ha saputo o voluto opporsi. Ripartire è drammaticamente difficile. Serve uno sforzo intellettuale formidabile. Non ne vedo segni, o ne vedo di opposti, come nel manifesto delle “sardine”. Ma tutti noi, economisti di sinistra, saremmo felicissimi di aprire un dialogo con questo movimento. Dalla mia esperienza universitaria ho però l’impressione che con i giovani cosmopoliti ed europeisti non ci sia grande dialogo, molto più facile aprirlo con giovani più semplici, che magari non han fatto mai politica e non sono andati in Erasmus, ma che scoprono un mondo ascoltando le mie lezioni o studiando le “Sei lezioni” (e mi ringraziano). Le “sardine” appaiono come una aspirante élite, come quest’ultima disturbata dal populismo, dalla rabbia del popolo vero a cui guardano con disprezzo e che lasciano così alla destra. Se non è così, la mia mail è pubblica.

Si può dedurre che ‘ci’ diventerà sovranista anche lei?
Cosa intende dire? Che essere per il proprio Paese è un valore di destra?

Fonte: Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), 2da edizione, Diarkos, Reggio Emilia, 2019.

Sergio Cesaratto insegna Politica monetaria e fiscale europea ed Economia internazionale presso l’Università di Siena. E’ uno dei più noti economisti “eterodossi” internazionali. Si è occupato fra l’altro di crescita economica, pensioni, innovazione e, ultimamente, della relazione fra teoria del sovrappiù, Polanyi e archeologia e antropologia economica. I suoi contributi sono stati pubblicati dalle principali riviste scientifiche eterodosse internazionali. Ѐ uno dei più noti partecipanti al dibattito pubblico italiano ed europeo sul tema della crisi dell’eurozona.

martedì 19 novembre 2019

Ilva, il liberismo duro e puro dell'Unione Europea ha causato deindustrializzazione


di Guido Salerno Aletta - Milano Finanza da l'Antidiplomatico
 

La questione dell’Ilva di Taranto, tornata prepotentemente alla ribalta, è l’occasione buona per costringere i tanti predicatori dell’europeismo “senza se e senza ma” a tirare finalmente la testa dal secchio: per metterli di fronte alla realtà, per dimostrare come stanno tradendo tutti, ma proprio tutti, i principi che portarono alla creazione della Comunità Europea, iniziando con quella del carbone e dell’acciaio che risale al 1951. Di quei valori e di quegli strumenti non c’è più traccia.
Anche nel settore della siderurgia, altro che telecomunicazioni di quinta generazione ed intelligenza artificiale, l’Europa viene stritolata: se da una parte ci sono le pretese americane e dall’altra c’è lo strapotere produttivo cinese, l’Unione chiude gli occhi e lascia che i più deboli soccombano. Uno dopo l’altro, nel disinteresse più completo. Gli Stati, d’altra parte, non hanno più poteri: sono stati trasferiti a Bruxelles. I governi annaspano, mentre monta il livore.
La vicenda dell’ILVA di Taranto è di cruciale importanza per l’Italia: se per un verso la sua straordinaria complessità deriva dal porsi all’intersezione di molteplici e contrastanti dinamiche internazionali, per l’altro ci obbliga ad affrontare il tema dell’insicurezza giuridica, che penalizza chiunque abbia interessi in Italia, tra il volteggiare delle normative che si susseguono senza sosta in ogni settore e la sistematica sostituzione della Magistratura ai mancati controlli ed alle omesse determinazioni della Pubblica amministrazione.
In primo luogo, però, si deve chiarire quale è il contesto concorrenziale dell’acciaio, in un assetto caratterizzato da ben quattro fattori critici: una contrazione generalizzata della domanda a fronte di un eccesso di capacità produttiva, laddove la Cina da sola ne ha installata per la metà del mondo intero; un restringimento del mercato di sbocco negli Usa, visto che l’Amministrazione Trump ha imposto, a tutela della sicurezza nazionale, un dazio generalizzato del 10% sulle importazioni, elevandolo nei confronti della Turchia per via della svalutazione della lira e minacciando di portare la tariffa al 50% dopo l’ingresso delle truppe di Ankara in Siria; una differenziazione enorme dei fattori di costo negli stabilimenti dei diversi Paesi, per via delle molteplici cautele imposte alla produzione per la tutela ambientale, la salvaguardia della salute umana e la sicurezza dei lavoratori; le fusioni industriali tra operatori europei ed indiani, come Arcelor/ Mittal e TyssenKrupp/TataSteel, che non militano a favore di una decisa azione della Unione europea nella trattazione del dumping ambientale. E’ una sorta di colonizzazione a parti invertite.
Siamo di fronte ad una situazione di insostenibile disparità di costi rispetto a cui i Protocolli di Kioto e le roboanti promesse di un New Green Deal non pongono alcun rimedio concreto. Nella operatività quotidiana degli operatori multinazionali, in un contesto di eccesso di offerta, ad essere sacrificati sono gli investimenti di rinnovo degli impianti e quelli volti all’adeguamento a fini di tutela ambientale e del lavoro. Tutto ciò che è arrivato a fine ciclo va dismesso.
Abbattere i salari, anche azzerandoli, non basta. Si ferma la produzione di acciaio a Rothbury ed a Indiana Harbour negli Usa; non riprenderà più a Florange, in Francia, dove era già ferma dal 2012. A Trieste si spegne la ferriera, e così pure a Cracovia in Polonia ed a Baia Saldanha in Sudafrica. Cronache si questi giorni.
Si misura qui, ed è il punto di crisi ulteriore, la assoluta inconsistenza della politica monetaria cosiddetta espansiva, in particolare quella della Bce che ha imposto tassi negativi sui depositi bancari ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria, che sarebbe stata volta ad indurre la erogazione di credito piuttosto che trattenere inoperosamente la liquidità e quella dei rifinanziamenti (L-tro) a tre anni. In un periodo così breve si rimborsano a malapena i finanziamenti erogati per comprare uno smartphone.
Tutto, nell’Unione Europa, ha ormai tradito l’eredità della CECA. Tutto è stato fatto all’insegna del liberismo puro e duro: anche le quote sulle importazioni di prodotti siderurgici da taluni Paesi terzi, che pure sono state introdotte da poco più di un anno, non riescono affatto a colmare i baratri tra i costi di produzione. La stessa Carbon Tax sui prodotti siderurgici, che pure è stata ipotizzata per penalizzare le produzioni dei Paesi che non adottano livelli restrittivi in tema di inquinamento, è appena una nuvola che appare e scompare sui cieli di Bruxelles.
I prezzi internazionali dell’acciaio, come quelli di tanti altri prodotti, non tengono conto del differenziale dei maggiori costi di produzione nei Paesi che meglio cercano di tutelare maggiormente l’ambiente e la salute umana.
In Europa, sparita la Ceca, sono finite pure le linee di credito funzionali a questi investimenti.
Suonano irridenti le parole del suo Trattato istitutivo: Art. 53 -” L'Alta Autorità può facilitare la realizzazione di programmi di investimento accordando prestiti alle imprese o dando la propria garanzia ad altri prestiti che esse contraggano”. Ed ancora, art.55 – “… deve incoraggiare le ricerche tecniche ed economiche concernenti…la sicurezza del lavoro in dette industrie”.
Basta scorrere, poi, i poteri che erano stati attribuiti alla Ceca in materia di quote di produzione nazionale nel caso di una contrazione della domanda, e addirittura quelli di compensazione economica a favore dei lavoratori nel caso di un abbassamento dei salari a fini concorrenziali: “Quando l'Alta Autorità constata che un ribasso dei salari, mentre provoca un abbassamento del tenore di vita della mano d'opera, è anche impiegato come mezzo di adeguamento economico permanente delle imprese o di concorrenza fra imprese, essa rivolge all'impresa, o al Governo interessato, sentito il parere del Comitato Consultivo, una raccomandazione al fine di assicurare alla mano d'opera, a carico delle imprese, dei benefici che compensino tale ribasso”. La deflazione salariale, che da anni viene imposta dalla Commissione come strumento volto ad assicurare la competitività mercantilista, è una politica diametralmente opposta rispetto ai valori su cui si fondava alle origini la Comunità europea. All’Art 1, si stabiliva che fosse suo compito “promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della mano d'opera, consentendone la parificazione verso l'alto”. Testuale.
Il mondo, si sa, corre. In un anno, gli effetti dei dazi americani sulle importazioni di acciaio sono stati consistenti, nell’ordine del 13,5%: nei dodici mesi terminati a settembre scorso, sono scese a 20,5 milioni di tonnellate, rispetto ai 23,7 milioni del periodo precedente; in valore, si sono contratte da 22,7 a 19 miliardi di dollari. Per alcuni prodotti, come le lamiere, l’import americano è crollato del 24,3%. Ci sono retroazioni: l’export di acciaio della Turchia, che si è più che dimezzato verso gli Usa nel corso dell’anno, si è ridiretto verso l’UE, ed in particolare verso l’Italia che ne è diventata la principale acquirente. Ciò anche per una sorta di triangolazione dei rottami di ferro che, in uscita dall’Unione per essere rigenerati negli impianti turchi, vengono reimportati in Italia a prezzi vantaggiosi, visti i minori oneri ambientali in quel Paese.
L’America, a modo suo, con i dazi sull’acciaio e l’alluminio sta cercando di proteggere quel poco di Old Economy che le è rimasta. Recede formalmente anche dalla partecipazione agli Accordi di Parigi sul clima, pur di non aumentare ancora i costi interni di produzione che già la penalizzano nel commercio internazionale.
Anche qui, tornano le lezioni del passato: fu la violenta stretta monetaria della Fed all’inizio degli anni Ottanta a determinare la prima ondata di deindustrializzazione americana, con gli impianti delocalizzati in Messico, appena oltre la frontiera, dove i costi del lavoro e di ogni altro fattore normativo erano enormemente più bassi. Il ribaltamento di segno dei tassi di interesse reale, che passarono repentinamente da negativi a positivi, colpì in modo ancora più drammatico l’Italia: saltò per aria l’equilibrio finanziario dei colossali piani di investimento a lungo termine delle Partecipazioni statali, tra cui quelli del polo siderurgico di Bagnoli. Il nuovo treno di laminazione a caldo, appena installato, fu smontato per cederlo agli indiani: roba di quasi quarant’anni fa.
Con i nuovi tassi, il debito era divenuto, per ciò solo, incontrollabile. Da lì, la china inarrestabile che portò agli accordi Andreatta-Van Miert sul divieto di sostegni da parte dello Stato e poi alla liquidazione dell’azionariato pubblico. Si congelarono anche gli investimenti produttivi dei privati a favore degli impieghi in titoli di Stato, che rendevano alle aziende assai più di ogni roseo profitto operativo. Il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia portò alla esplosione del debito pubblico.
Oggi sono ancora una volta i differenziali di costo che bloccano gli investimenti a lungo termine, e che portano alla chiusura degli impianti: non sono più gli oneri finanziari che fecero sballare i conti negli anni Ottanta, ma quelli derivanti dalla maggior tutela ambientale della vita umana e del lavoro. La precarizzazione e la svalutazione salariale, pure insieme alla contrazione delle tutele sociali, non bastano a colmare il divario dei costi: se dal piano industriale dell’Ilva di Taranto se ne scorporassero quelli relativi all’adeguamento ambientale e quelli imposti direttamente dalla magistratura per la sicurezza del lavoro, forse ci troveremmo di fronte ad una revoca del recesso.
A nessuno mai verrebbe in mente una ipotesi così balzana. Ma, se i prezzi dei beni prodotti inquinando liberamente sono comparati sul mercato a quelli dei prodotti che vengono realizzati rispettando vincoli severi, davvero non c’è partita. Se si chiude a Taranto, sarà un altro deserto, come a Bagnoli. Non basta piangere, né pregare: l’Amazzonia che brucia è qui, siamo noi. 

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...